Girato da Wang Bing nel corso di cinque anni tra il 2014 e il 2019 a Zhili e nella provincia dell’Anhui, nel grande distretto tessile cinese attraversato dallo Yangtze, Youth – Spring è solo la prima parte di un dittico che il documentarista cinese sta ancora terminando di montare.
Esponente di spicco di quel cinema della verità che pazientemente osserva le vite degli altri, per farne materia viva del suo lavoro, questa volta Wang concentra il suo sguardo sulla gioventù che vive e lavora in questi spazi post-umani che fanno sembrare gradevoli le vele di Scampia.
Il tempo trascorre al ritmo delle cucitrici: non c’è un orario di lavoro, si viene pagati a pezzo. Quando si è stanchi si sale qualche scala fatiscente e si mangia e si dorme in stanze comuni, con i letti a castello o con brande che saturano ogni spazio comune e dilaniano qualsiasi intimità. I corridoi pieni di spazzatura, come in una discarica a cielo aperto.
Eppure quei giovani e giovanissimi che Wang osserva sono ancora capaci di uno spirito vitale non rassegnato. Ridono, scherzano, flirtano con la compagna di tavolo, cercano di contrattare persino tariffe migliori. Qualche sera escono dagli spazi angusti che assomigliano a prigioni senza sbarre, per muoversi in città fantasma.
Ci sono ancora afflato umano, spirito di solidarietà, si festeggiano i compleanni con le torte alla panna che fanno una bruttissima fine, si vive la vita un giorno alla volta, sotto l’occhio vigile delle tre cineprese di Wang, che talvolta i personaggi interrogano direttamente, in una svisata di senso che colpisce.
Il regista non aggiunge nulla di suo, non cerca una storia, mostra quello che accade, la routine sempre uguale di giornate che si ripetono all’infinito. Cambiano i piccoli laboratori, ma i problemi restano gli stessi. Persino l’aborto di una delle ragazze diventa una questione di lavoro per i manager.
Il capitalismo feroce riscopre pratiche ottocentesche, ruba il tempo e la vita, si appropria di tutto, persino dei sogni e dei desideri della classe operaia costretta a vivere in una sorta di falansterio da cui non si può uscire. L’economia è minima, le paghe in contanti: mazzette di yen rossi che servono forse solo per tornare a casa, dalla moglie o dai figli abbandonati lontano.
A orientarci in questo caleidoscopio di esperienze umane ci sono semplici didascalie color turchino, che ci ricordano i nomi, l’età, i luoghi.
La scelta estetica non potrebbe essere più chiara: camera a spalla, mimetismo assoluto, nessuna drammaturgia, persino il montaggio si fa essenziale e minimale. Cinema rigorosissimo e senza filtri.
Solo che dopo due ore il dubbio che il pattern chiarissimo del film si possa ripetere uguale a se stesso ogni 10 minuti per le 3 ore e 30 minuti della sua durata piuttosto che per 9 ore (questo il minutaggio previsto per i due film assieme) o piuttosto in eterno diventa sempre più concreto.
Purtroppo appagata la curiosità sociologica e messa a durissima prova la solidarietà umana, anche lo sdegno finisce attutito e la noia sembra avere la meglio.
Lontanissimi i tempi in cui Il fosso arrivava alla Mostra di Venezia come film a sorpresa, con la sua bruciante urgenza narrativa. Questo Youth sembra già un lavoro di maniera, in cui la critica sociale e politica è annacquata nelle storie di molti.
Tagliare e cucire, mangiare e dormire. Tagliare e cucire, mangiare e dormire…