Cannes 2023. The Nature of Love – Simple comme Sylvain

The Nature of Love – Simple comme Sylvain **1/2

Deliziosa commedia sentimentale, Simple comme Sylvain è il terzo film della quebecoise Monia Chokri, lanciata da Dolan e poi capace di imporsi proprio a Cannes con la sua opera prima La Femme de mon frère nel 2019.

Se allora il suo sguardo ironico e tagliente si era posato sulla relazione tra due fratelli, questa volta al centro del racconto ci sono le relazioni sentimentali di una quarantenne, Sophia, professoressa che attende un incarico universitario e nel frattempo insegna a studenti della terza età, in un corso di filosofia che sembra avere al suo cuore l’idea di amore.

Il suo compagno da una vita è Xavier, intellettuale, borghese, progressista come lei e come i suoi amici. Solo che la passione è svanita da un pezzo e i due dormono in letti separati.

Quando Sophia compra uno chalet in montagna e deve ristrutturarlo, conosce l’imprenditore edile Sylvain, lontanissimo dal suo mondo, affascinato da teorie del complotto e da notizie implausibili, appassionato di cantanti a dir poco xenofobi.

Solo che l’impeto della passione travolge Sophia, fino a spingerla a lasciare Xavier e ad immaginare una vita con Sylvain e la sua curiosa famiglia, in cui lui è considerato l’intellettuale.

Aperto e chiuso da due cena a casa dell’amica Françoise, prima con Xavier e infine con Sylvain, il film della Chokri è scritto con la consueta intelligenza e con un’ironia capace di mettere alla berlina le convenzioni di classe e le convinzioni personali.

Non c’è mai una battuta sciatta, un tempo comico mancato, una svolta che non suoni perfettamente plausibile e intelligente, in un film che appare un piccolo gioiello di originalità e sensibilità, nel cui piccolo mondo ci si perde volentieri.

Libero, carnale, spregiudicato, femminile nel senso migliore del termine, Simple comme Sylvain poggia quasi interamente sulle spalle di Magalie Lépine-Blondeau, che regala a Sophia i suoi dubbi, la sua sensualità, la sua gelosia, i suoi rimpianti e le sua insicurezze.

Ma è soprattutto la fotografia pastosa, calda e spesso in controluce di André Turpin che immerge il film in un’atmosfera fuori dal tempo, usando in modo sublime i colori dell’autunno e dell’inverno negli esterni e il giallo delle luci e il marrone della boiserie degli interni dello chalet.

Spesso i personaggi sono occultati da porte, vetri, specchi e specchietti, che sembrano quasi riflettere le distanze che separano i due amanti, improvvisamente accorciate dalla passione travolgente, ma capaci di riemergere prepotentemente, anche solo per una parola sbagliata e corretta.

Non meno essenziali le musiche di Emile Sornin che sembrano evocare le atmosfere malinconiche e struggenti dei film Lelouch o dello stesso Demy, esplicitamente richiamato da quel finale alla stazione di servizio, che come ne Les Parapluies de Cherbourg lascia il senso di un’occasione perduta e di un tempo che non ritornerà più.

Sorprendente.

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