Il nuovo lavoro del messicano Michael Franco (After Lucía, Chronic ) è presentato ancora alla Mostra di Venezia, un anno dopo il Leone d’Argento conquistato con il sovversivo Nuevo Orden.
Questa volta però non si tratta di ipotizzare rivoluzioni e contro-rivoluzioni fasciste, in un grande affresco sudamericano tra sommersi e salvati, ma di una storia non meno sconvolgente, eppure intima, personale, apparentemente piccolissima.
Nella fortissima dialettica critica sul cinema di Franco, questo Sundown è destinato a rafforzare le convinzioni di detrattori ed estimatori, recuperando le atmosfere feroci dei suoi esordi.
Il film si apre ad Acapulco, in un magnifico resort dove gli inglesi Neil e Alice stanno trascorrendo le loro vacanze, assieme a due giovani ragazzi.
Sembra solo una famiglia felice: piscina, cocktail, spettacoli per turisti. Il solito menù per occidentali.
Improvvisamente Alice riceve una telefonata che l’avverte che la madre sta per essere ricoverata a Londra. Una seconda la informa della morte improvvisa della genitrice.
I quattro fanno i bagagli in fretta per rientrare in Inghilterra col primo volo.
Arrivati al gate, Neil si accorge di aver lasciato il passaporto nel resort.
Perso il volo, il silenzioso protagonista, che non parla spagnolo, si fa accompagnare da un taxi in un modesto albergo vicino alla spiaggia pubblica.
Non rientrerà mai in Inghilterra, lasciando sola Alice con il suo dolore e le incombenze ereditarie.
Ad Acapulco conosce una donna, Berenice, che gestisce un negozio di costumi e cappelli, proprio di fronte alla spiaggia. Passa le sue giornate sulla battigia a bere birra e ad attendere la donna, che presto diventa la sua compagna.
Nel frattempo Alice comprende le bugie di Neil sul passaporto e dopo il funerale torna in Messico per capire motivi e significato di questa fuga al contrario.
Non diremo di più, perchè il film di Franco riserva svolte narrative e sorprese continue, pur nei suoi secchi e tiratissimi 83 minuti.
Chi è Neil, perchè ha deciso di restare ad Acapulco? E chi è Alice per lui? Sono solo le prime domande a cui film comincerà a dare una risposta solo nel secondo atto, quando nuovi interrogativi e nuovi conflitti spingeranno il protagonista in galera e poi nuovamente alla fuga.
Il film è duro ed enigmatico come i precedenti del regista messicano, tuttavia, pur rimanendo a lungo all’oscuro sulle ragioni di Neil, non è troppo manipolatorio e revanscista, assume invece una dimensione esistenziale e anticonformista.
Ma perchè Neil superato da un pezzo il mezzo del cammin, decide di abbandonare tutto e ricominciare da capo in un Paese lontanissimo, in cui non conosce nessuno? Basteranno i sentimenti di Berenice a placare la sua rivolta silenziosa?
Il film suggerisce anche una risposta razionale, alle inquietudini del protagonista, ma quel suo desiderio di abbandono alla luce del sole, risuona molto più forte.
Il ritratto che Franco fa del suo Paese è non meno crudele che nei suoi lavori passati.
Si muore in spiaggia, violentemente, nel disinteresse generale; le carceri sono inferni affollati e umidi di sudori e umori; la giustizia è una merce come un’altra, che si può comprare facilmente; non va meglio con la sanità: per una semplice tac bisogna spostarsi nella capitale. Nel frattempo gli occidentali sono ospitati in oasi protette, da cui non possono uscire, salvo precipitare nello stesso caos che vivono i locali.
Tim Roth è una maschera impenetrabile, maestro di minimalismo e silenzi, sembra aver compreso perfettamente la natura del suo ruolo.
Di fronte agli affanni e allo sconcerto di Alice, del suo avvocato e degli altri personaggi risponde con una serenità inscalfibile, che lascia ancora più sconvolti i suoi interlocutori.
La vita sembra aver perduto significato per lui, ridotta ai suoi bisogni primari ed essenziali.
Tutti i soldi del mondo non servono a nulla. Solo alla fine capiremo perchè.