Pieces of a Woman è l’ottavo film del talentuoso ungherese Kornel Mondruczo, ed il primo che approda al concorso veneziano: dopo il debutto del 2000 con This I Wish and Nothing More, quasi tutti i suoi film successivi sono stati accolti a Cannes, dove White God ha vinto Un certain regard e dove i suoi lavori hanno spesso diviso, come è accaduto a Tender Son: The Frankenstein project e a Una luna chiamata Europa.
L’originalità del suo sguardo e un certo gusto formalista l’hanno spinto ad accettare di dirigere il copione scritto da Kata Wéber e ambientato a Boston, nel corso di un lungo anno, trascorso accanto ai due protagonisti, Martha e Sean.
Lei proviene da una ricca famiglia ebraica e ha un meraviglioso ufficio in centro con vista sulla città, lui invece lavora come operaio edile alla costruzione di un nuovo ponte sul Mystic River.
Sono in attesa del loro primo figlio, che Martha ha deciso di far nascere in casa, con l’aiuto di un’ostetrica. Ma quella che hanno scelto è impegnata in un altro parto in contemporanea, proprio la notte del travaglio: la sua sostituta è una persona, che i due non hanno mai visto. Nonostante le rassicurazioni e la lunga pratica, le cose non vanno come avrebbero dovuto.
Tutto questo Mondruczo ce lo racconta nel tragico ed estenuante prologo, girato all’interno della casa di Sean e Martha in un unico lunghissimo piano sequenza, prima che i titoli di testa ci trasportino ai giorni successivi, passati nella dolorosa elaborazione del lutto.
Non è solo Martha ad andare in pezzi, ad abbandonare il lavoro, rifugiandosi in un’apatia da cui sfugge solo durante qualche serata riempita di alcol e musica assordante.
E’ il suo rapporto con Sean e quello con la madre a venire compromesso in modo forse irreparabile. Mondruczo cerca di raccontare la disgregazione progressiva e inesorabile, la differenza tra chi vorrebbe continuare a ricordare e chi invece ha deciso di cancellare ogni traccia.
Lo fa guardando soprattutto al cinema di Cassavetes, da cui sembra uscire il personaggio di Martha, capace di mostrare in superficie solo i lampi di un’interiorità tutta trattenuta.
Il coinvolgimento della Kirby nel progetto di Mondruczo è nato proprio a partire dal desiderio dell’attrice di interpretare un ruolo che avesse lo spessore di quelli interpretati da Gena Rowlands.
Sullo sfondo si muovono altri elementi, come la causa penale contro l’ostetrica e il desiderio di Martha di lasciare il corpo del figlio alla scienza, perchè non sia tutto vano, ma in questo modo privando se stessa e gli altri di un sepolcro su cui piangerlo.
Con una certa sensibilità, Mondruczo cerca di mostrare tutti i volti di un dolore indicibile, di un vuoto che sembra risucchiare nella rabbia e nel risentimento le vite di tutti. Lo fa costruendo un personaggio che trattiene tutto dentro di sè, come anestetizzato dagli eventi, almeno sino a quando non sarà la madre a ricordarle che solo ritrovando la sua voce, solo riaffermando se stessa e i suoi sentimenti di madre e di donna potrà riuscire a venire a patti con il suo destino.
Per farlo, la madre le ricorderà da dove proviene la loro famiglia, qual è la loro storia, quali tragedie personali e collettive hanno dovuto affrontare, prima di trovare fortuna e successo a Boston.
E’ una scena che da sola vale il film, che riesce a smuovere finalmente quel grumo di dolore, che stava inghiottendo Martha, in una spirale autodistruttiva.
Ma il film dopo il notevole incipit si sfilaccia sempre di più, quasi vivesse la stessa crisi dei suoi personaggi. I due spunti narrativi che sostengono il racconto, ovvero la scelta di un parto in casa e le sue conseguenze giudiziarie, finiscono in realtà per appesantire e rendere confuso lo sviluppo drammatico, quasi che a Mondruczo non interessasse per nulla nè prendere una posizione sulla scelta di Martha e Sean, nè trasformare la parte centrale e finale del suo film in un legal drama sulle responsabilità dell’ostetrica.
E così questi due elementi, che appaiono centrali nella sceneggiatura della Weber, diventano in realtà elementi di disturbo e restano del tutto irrisolti, in un film che Mondruczo ha inteso soprattutto come un dramma personale e familiare.
Mondruczo avrebbe dovuto trovare il coraggio di allontanarsi ancora di più dalla sceneggiatura, così come ha fatto per il lunghissimo piano sequenza del parto, ideato e in buona misura improvvisato sul set. Una sceneggiatura costruita su un eccesso di melò, che mal si concilia con l’asciuttezza e i pedinamenti scelti dal regista,
L’onnipresente piano di Howard Shore è sin troppo efficace nell’accompagnare il percorso di Martha, aggiungendo inutile pathos ad un racconto, che non ne avrebbe avuto bisogno.
In un ruolo particolarmente delicato, Vanessa Kirby è capace di alternare calore, complicità e poi miseria e algida lontananza, integrandosi perfettamente con uno Shia LaBeouf che – come spesso gli accade in questo secondo tempo della sua carriera – appare decisamente animalesco, istintivo, brutale eppure pieno di tenerezze e fragilità.
I due sono una coppia decisamente improbabile e la tragedia li spinge a misurare, fino in fondo, la lontananza che li separa.
Indimenticabile invece la madre interpretata da Ellen Burstyn: uno di quei ruoli secondari che impreziosiscono una carriera leggendaria, cominciata a teatro e poi all’Actors Studio già alla fine degli anni ’50.
Martin Scorsese e Sam Levinson di Euphoria sono tra i produttori esecutivi, per la Bron pictures.
Lo stile immersivo della regia di Mondruczo ci trascina così all’interno di un conflitto, che assomiglia ad un prisma con molte facce: ciascuna rappresenta una scelta morale differente. Ma non è detto che si riesca a distinguere quelle giuste, da quelle sbagliate.
Peccato che Mondruczo insegua le troppe tracce della sceneggiatura e alla fine non riesca a chiudere in modo efficace, accumulano almeno due o tre finali di troppo, che non aggiungono nulla e pasticciano coi simboli, senza alcuna necessità.
Su Netflix dal 7 gennaio 2021.