Il secondo film dell’attore Brady Corbet, dopo il travolgente L’infanzia di un capo, è dedicato alla memoria di Jonathan Demme, “perchè ha cambiato la mia vita premiandomi qui a Venezia, poi si è preso cura di me e del mio film e ha fatto questa cosa con tanti registi nella sua vita“: così ha raccontato il regista.
Per una volta partiamo dalla fine, da una dedica che racconta molto della passione, dello spirito anticonformista e dell’originalità che Corbet ha cercato di mettere in scena, nel tratteggiare un ritratto del XXI secolo.
Così come nel suo film d’esordio, il giovanissimo regista ha cercato di mostrare come la Storia e lo spirito del tempo influenzino l’esistenza di ciascuno, come il potere e la violenza siano parte di un complesso meccanismo di autoaffermazione, non sempre consapevole.
Qui però non siamo nell’Europa d’inizio Novecento, ma negli Stati Uniti alla vigilia del nuovo millennio, eppure la violenza privata e quella delle stragi di massa e degli attacchi terroristici sono ugualmente centrali e sinistramente presenti nella nostra cultura popolare, capace di nutrirsi di ogni evento, indistintamente.
Dopo un prologo in cui il nostro narratore invisibile ci racconta i dati biografici essenziali della protagonista, sullo scorrere degli straordinari titoli di testa, il film comincia nel 1999 a Staten Island, dove la tredicenne Celeste è una delle vittime di quelle stragi scolastiche, che hanno contrappuntato con inquietante ritualità la cronaca nera americana.
Salva per miracolo, costretta ad una lunga riabilitazione, decide di onorare la memoria dei compagni caduti, con una canzone, scritta assieme alla sorella Eleonor, suonata durante i funerali e diventata subito una triste hit in tutto il paese.
Un produttore musicale decide così di sfruttare il suo acerbo talento, trascinando entrambe le sorelle a New York prima e poi a Stoccolma, per incidere un album vero, che lancerà Celeste nel mondo dorato dello showbiz adolescenziale, tra pop enfatico, balletti e coreografie da ninfette, montagne di soldi, capaci di alleviare il dolore, che non sembra tormentare poi troppo la protagonista.
Passano gli anni e nel 2017 la ritroviamo diversa, trentenne di immenso successo, alle soglie del suo ritorno a casa, con un nuovo mega tour.
Accanto a lei i due manager di sempre, la sorella e la figlia adolescente, avuta quando era poco più che una bambina.
Il film di Brady Corbet, girato in pellicola e in diversi formati, in modo da contrassegnare il passaggio del tempo dall’analogico di fine secolo alla brillantezza digitale e vuota del concerto finale, sembra il parto di due menti diverse: brillante, ironica, pungente e raffinata la prima, pedante, logorroica e senza idee la seconda.
Se infatti l’incipit e il breve percorso verso il successo di Celeste sono dipinti con la grazia feroce dell’apologo morale, la seconda parte rimane impantanata nello stanco cliché dell’artista maledetta, scontrosa, dalla vita incasinata, incapace di colmare la distanza tra palco e realtà.
Finchè Celeste è interpretata da Raffey Cassidy, il film vola altissimo, mettendo alla berlina, con l’ironia sottile del romanzo ottocentesco, un modello culturale di atroce stupidità e di raggelante nichilismo. Il patto col diavolo stretto da Celeste è quello che tutti coloro, che le ruotano attorno, hanno deciso di ratificare, spingendo una ragazzina sopravvissuta ad un massacro verso un successo facile e ricattatorio.
Corbet affonda il colpo, espone la vacuità pop, lavora sul senso di colpa e su quell’idea tutta americana della voce angelica, capace di mettere la sordina ad ogni vero sentimento, ad ogni asprezza, anestetizzando un dolore, che invece andrebbe elaborato criticamente.
In tutta la prima parte il film rimane un fuoco d’artificio non solo narrativo e tematico, ma anche stilistico, con rallenti, velocizzazioni, home movies, video musicali, realismo mimetico. Un pastiche perfettamente coerente ed esatto.
Poi il set cambia, passa il tempo e forse le idee latitano, perchè si riparte da una seconda strage che chiama in causa Celeste ancora una volta, per poi mostrarci quanto il successo abbia trasformato la diva pop. Una trasformazione innanzitutto fisica, perchè se gli altri personaggi sono interpretati dagli stessi attori, Celeste cambia: c’è Natalie Portman al posto di Raffey Cassidy, che intrepreta ora la figlia della popstar.
La trasformazione rappresenta anche uno slittamento di senso: Celeste è invecchiata e cambiata molto più di tutti gli altri nei sedici anni di ellissi, il suo ruolo ha definito in modo diverso non solo la sua personalità, ma anche il suo fisico.
Celeste è diventata una diva dalla vita scombinata, fragile e scontrosa, strafatta di alcol e droga, con una figlia troppo grande, molti segreti da tenere nascosti e una dipendenza totale dai suoi collaboratori, ma capace di trasformarsi nel personaggio sicuro di sè e infallibile, quando le luci si spengono e comincia la musica. Non lo trovate un po’ troppo da manuale?
La Portman poi la interpreta sempre sopra le righe, in modo persino sgradevole, ma senza un’oncia di originalità.
Il suo, come quello di molte divette pop, è un personaggio interamente costruito, istruito, imbeccato, senza alcuna genuinità, che sembra trarre beneficio da quella società dello spettacolo, da cui è invece sfruttata come come uno strumento di un ingranaggio molto più complesso. Un ingranaggio peraltro perfettamente sostituibile.
Eppure, questo forse vuole dirci Corbet alla fine, non c’è stato alcun vero cambiamento e la Celeste di oggi non è altro che la realizzazione del desiderio feroce e nascosto della tredicenne di un tempo, che di ingenuo e angelico non ha mai avuto nulla.
Purtroppo però Vox Lux è come se rimanesse bloccato nel clichè di Celeste, trascinata un po’ stancamente tra roundtable, conferenze stampa, scenate, rimpianti & rimorsi e un concerto finale che dura un’infinità, tra pezzi – scritti da Sia e coreografati da Benjamin Millepied – uno più orrendo dell’altro.
Un piccolo capolavoro, a metà.
Regia: |
Brady Corbet
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Durata: |
110’
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Paesi: |
Usa
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Interpreti: |
Natalie Portman, Jude Law, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Jennifer Ehle
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