Arrival ***1/2
L’atterraggio di navicelle aliene sulla terra pone un quesito all’umanità intera: guerra o pace? L’esercito chiama in causa un’esperta di linguistica (Amy Adams) per capire se le intenzioni degli invasori siano pacifiche o se, invece, rappresentino una minaccia. Con Forest Whitaker nei panni del colonnello Weber e Michael Stuhlbarg dell’agente Halpern.
Denis Villeneuve è un metteur en scène assoluto, un regista capace di cambiare stile, tono, argomenti, passando attraverso i generi e le forme, con uno spirito umanista profondamente laico.
L’avevamo conosciuto a Cannes molti anni fa, quando il suo Polytechnique aveva fatto scalpore, raccontando dal punto di vista del killer, una strage in un liceo canadese, con un bianco e nero indimenticabile.
L’avevamo ritrovato nel conflitto mediorientale qui a Venezia con La donna che canta, quindi nell’incubo lynchiano di Enemy e poi nel capolavoro Prisoners, sull’america corrotta dalla propria stessa sete di violenza.
Con Sicario, Villeneuve si era addentrato nelle ambiguità della lotta ai cartelli della droga messicani, laddove oltrepassare il confine non è solo un fatto geografico, ma soprattutto morale.
Arrival è il suo primo viaggio nella fantascienza adulta, che sembra guardare allo Spielberg degli incontri ravvicinati e all’odissea kubrickiana, oltre che ai viaggi interstellari di Nolan.
La sua ambizione è altrettanto grande, nel tentativo di confrontarsi con le domande fondamentali della nostra esistenza, raccontando anche metaforicamente questi anni di grandi flussi migratori, di resistenze nazionali e di diffidenze sempre più forti, in un mondo senza padroni e senza blocchi.
Arrival è una riflessione commovente e lucidissima sulla circolarità del tempo e dello spazio, sull’accettazione della nostra mortalità, sulle funzioni del linguaggio, sul ruolo della scienza, sul libero arbitrio, sulle emozioni personali e familiari a confronto con l’esperienza collettiva.
Villeneuve non ha paura di usare il racconto di genere, per introdurre riflessioni e domande che parlano all’uomo di ogni tempo.
Tutto comincia con una madre che perde prematuramente la figlia adolescente, per una malattia rara e incurabile.
Quella madre è Louise Banks, una nota linguista, che insegna all’università. Quando una mattina dodici oggetti non identificati si palesano attorno alla terra, il governo americano la spedisce in Montana, assieme al fisico Ian Donnelly, per cercare di entrare in contatto con gli alieni e capire se l’invasione è ostile.
La collaborazione tra i paesi che ospitano le dodici astronavi e che cercano di scambiarsi le informazioni, necessarie a comunicare con gli eptopodi che le abitano, finisce quando viene usata la parola weapon.
Cina e Russia si armano quindi per combattere un eventuale attacco e ciascuno si isola, per non dare vantaggi competitivi agli altri paesi. L’egoismo ottuso e nazionalista sembra prevalere.
Il lavoro di Ian e Louise sarà quello di evitare uno scontro, che appare ormai imminente. Cosa vuol dire, allora, essere umani?
Aiutato dall’interpretazione maiuscola di una sempre più grande Amy Adams, che non ha bisogno di lacrime e scene madri, ma che mostra il dolore dell’abbandono e della solitudine, con una misura emotiva encomiabile, Villeneuve si affida alla fotografia lattiginosa di Bradford Young, per mettere in scena con eleganza materica gli ospiti venuti dallo spazio.
I parallelepipedi lucidi di 2001 e i dischi volanti lasciano il posto ad oggetti che sembrano rocce enormi, porose, senza spigoli: Arrival gioca con i limiti della rappresentazione, con la stessa efficacia e la stessa misura che usa nell’affrontare i temi che lo innervano.
Secondo l’ipotesi che il film sembra alimentare, le strutture linguistiche finiscono così per condizionare il pensiero collettivo e farsi strumento di conoscenza e non solo comunicazione.
La musica straniante di Jóhann Jóhannsson e il prodigioso sound design accompagnano sapientemente il crescendo emotivo della protagonista, vero centro drammatico del film.
Il montaggio non lineare è lo strumento narrativo che il regista utilizza, per celare le emozioni e le sorprese dello stupefacente terzo atto, nel quale le tessere del mosaico, sapientemente costruito, trovano ognuna il proprio posto, in una circolarità che abbraccia non solo i segni di una lingua sconosciuta, ma il destino di tutti.
Villeneuve cerca una sintesi umanissima tra la due anime della cultura occidentale, quella scientifica e tecnologica e quella artistica e filosofica, grazie alla forza del racconto di fantascienza e all’empatia dei protagonisti, capaci di rendere credibile ogni palpito, ogni dubbio, ogni ricerca.
Sceneggiato da Eric Heisserer a partire dal racconto di Ted Chiang, Story of Your Life, Arrival è già un classico che, per una volta, fa i conti con l’intelligenza e l’emotività del suo pubblico, evitando ogni inutile gravità, senza ricorrere a distruzioni e devastazioni, ma giocando con la memoria, il tempo, il valore delle parole, l’elaborazione del lutto.
Imperdibile.