Romanzo di una strage **1/2
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe”.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. […]
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. […]
Romanzo di una strage, scritto da Rulli e Petraglia, assieme al regista Marco Tullio Giordana, è un film che ha un merito non secondario: ricostruisce con grande cura e con spirito nobile un momento chiave della nostra storia, nel quale l’illusione libertaria degli anni ’60, le rivendicazioni sociali e sindacali, l’insoddisfazione per l’immobilità democristiana sono state deviate dal sangue delle stragi di stato ed hanno finito per sfociare nella cappa conformista del terrorismo.
Raccontare quegli anni è sempre stato molto difficile perchè, come scriveva Pasolini nei suoi Scritti Corsari, che stanno all’origine del titolo del film, le versioni ufficiali e quelle giudiziarie non sono state in grado di accertare fino in fondo, responsabilità e mandanti.
La verità si intuisce, il quadro si mostra in tutta la sua terribile grandiosità, ma i particolari sfuggono. Ed è qui che il ruolo dell’intellettuale diventa necessario.
Sulla strage di Piazza Fontana – che nel dicembre 1969 ha innaugurato la stagione delle morti innocenti e del terrorismo, capace di attraversare tutti gli anni ’70, sino al rapimento ed all’uccisione di Aldo Moro – si sono scritte milioni di pagine. Agli infiniti processi, conclusi solo 40 anni dopo, si sono sommate le inchieste giornalistiche, le parole dei protagonisti, le bugie di chi sapeva e l’omertà, che ha sempre contraddistinto la Notte della Repubblica.
Romanzo di una strage nasce dall’indagine Il segreto di piazza Fontana, a cura di Paolo Cucchiarelli ed è nell’adesione alle conclusioni di quell’inchiesta giornalistica che hanno origine molti dei suoi limiti.
Secondo Cucchiarelli le bombe alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quel pomeriggio di dicembre, furono due: una destinata a fare solo un piccolo botto, a sportelli chiusi, e l’altra, molto più potente, innescata da una miccia, con l’intento di uccidere. Il doppio ordigno serviva a depistare subito le indagini, a deviarle verso i gruppi anarchici, che già erano nell’occhio del ciclone, per alcuni attentati sui treni, che erano stati a loro attribuiti, sin dall’estate.
Alle spalle della strage, vi erano invece i gruppi neofascisti veneti, infiltrati dai servizi e forse sostenuti dall’estero.
Quella delle due bombe è una tesi suggestiva, ma improbabile e contestata, che rischia però di spingere l’opinione pubblica, i commentatori ed i superstiti di allora, come sta puntualmente avvenendo in queste ore, a focalizzarsi su questo aspetto marginale e controverso, che occupa solo un paio di brevi scene finali, piuttosto che a riflettere sui meriti di un film, certamente pregevole.
Giordana costruisce il suo racconto attorno a tre figure chiave: innanzitutto Aldo Moro, all’epoca ministro degli esteri e coscienza critica della Democrazia Cristiana, fautore di quell’allargamento della maggioranza parlamentare al Partito Comunista, che ormai rappresentava oltre un terzo del paese.
Gli altri due protagonisti sono il Commissario Luigi Calabresi, che si occupò delle indagini sulla strage e di Giuseppe Pinelli, l’anarchico milanese, che finì defenestrato dal quarto piano della questura, nel corso di un interrogatorio protrattosi per tre giorni.
La pista anarchica era quella più facile e quella che sin dall’inizio i vertici della polizia intendevano perseguire e coltivare.
Romanzo di una strage, nel raccontare il confronto onesto e leale tra Calabresi e Pinelli, che comincia molti mesi prima della bomba di Piazza Fontana, sembra sposare la linea pacificatrice del Presidente Napolitano, che ha voluto far incontrare quarant’anni dopo le due vedove: c’è il rischio però di farne due santini laici, raddoppiati da un Moro mai così illuminato e sofferente.
La morte di Pinelli, da subito fu attribuita, anche moralmente, ai metodi duri di Calabresi e dei suoi uomini, anche se quest’ultimo quasi certamente non era presente nella stanza, al momento della caduta. La campagna d’odio nei suoi confronti fu alimentata anche dall’interno, dall’Ufficio Affari Riservati del Prefetto D’Amato, e rilanciata da Lotta Continua.
Il film ne dà conto con intelligente misura, ricostruendo il clima di delegittimazione e di precarietà che ha accompagnato il tentativo di fare chiarezza sui mandanti e gli esecutori della strage, sia a Milano, sia a Roma ed in Veneto, dove la pista nera cominciava a trovare inaspettate conferme.
I tre protagonisti sono straordinari: Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro con la dolente consapevolezza di chi sa, ma non ha la forza di dire, Valerio Mastandrea è un Calabresi forte, determinato, tutto d’un pezzo, Piefrancesco Favino è un Pinelli credibile e impulsivo.
Ma è tutto il coro di non protagonisti a rendere prezioso e complesso il racconto, con un lavoro di casting indovinatissimo ed efficace. Da Luigi Lo Cascio, come Giudice Paolillo, all’ambiguo Giorgio Colangeli, come Prefetto d’Amato, da Omero Antonutti nei panni di Saragat a Thomas Trabacchi in quelli del giornalisti Nozza, sino alle mogli di Pinelli e Calabresi, Michela Cescon e Laura Chiatti, tutti servono la sceneggiatura di Rulli e Petraglia con grande partecipazione.
Cosa manca allora a Romanzo di una strage per essere un grande film?
Manca il cinema, innanzitutto.
Non è un paradosso: come hanno dimostrato per ultimi Bellocchio, Sorrentino, non si può raccontare quegli anni, senza un’idea forte di cinema, che sia quella pop e grottesca de Il Divo, quella onirica e travolgente di Buongiorno, notte e Vincere o quella della nostra tradizione politica e civile, da Rosi a Petri per intenderci, al limite anche quella di genere, come ha dimostrato il Placido di Romanzo criminale, scritto dagli stessi Rulli e Petraglia.
Altrimenti se ci si limita alla ricostruzione, più o meno fedele, più o meno ideologicamente corretta lo strumento migliore è quello documentaristico: per raccontare anni che molti hanno vissuto e di cui esistono preziosi filmati d’archivio, ci vuole il coraggio di uno scarto narrativo, di una chiave interpretativa forte, che scardini il gioco sterile delle versioni contrapposte e che renda giustizia alla potenza del gesto artistico e del cinema in particolare, senza sminuirne le potenzialità in una rappresentazione corretta, ma più adatta alla drammaturgia televisiva.
Non basta la fedeltà della cronaca e delal ricostruzione d’ambiente.
A Giordana è mancata proprio la forza di superare i limiti dell’inchiesta, da cui ha preso spunto, per mettere in immagini e suggerire la verità, al di là dei fallimenti della nostra giustizia e delle omertà della nostra politica.
E’ mancata anche la capacità di raccontare quegli anni di contrapposizione fortissima, attraverso le idee. Gli anarchici sono ridotti ad un branco di ingenui, infiltrati da tutti e presi come capro espiatorio, le contestazioni dell’autunno caldo compaiono brevemente, quasi in maniera folckloristica, solo per metterne in luce la violenza, ma non le motivazioni, persino Feltrinelli viene rappresentato come una sorta di idiota esaltato. Non c’è nel racconto di Giordana, la passione di quegli anni, il sogno di un’Italia nuova, piegato dalla violenza di Stato e ridotto a giustificazione impossibile alla brutalità terroristica.
La scelta poi di sposare proprio in extremis la tesi della doppia bamba, in un confronto, forse reale, forse immaginario tra Calabresi ed il Prefetto D’Amato è un espediente che toglie forza al racconto, lo espone ad ingiustificate critiche e annebbia la chiarezza delle responsabilità che pure la giustizia ha parzialmente accertato nel corso di 40 anni di processi, pur non riuscendo ad arrivare ad una condanna degli autori materiali della strage.
Paradossalmente il film riesce a dire persino meno di quello che oramai è stato acclarato: la bomba fu voluta e realizzata dai gruppi neofascisti veneti, che già avevano messo gli ordigni dimostrativi sui treni d’agosto, facendone ricadere le responsabilità sui gruppi anarchici. Il primo ed il secondo livello non sono controversi. Le modalità con cui l’attentato di Piazza Fontana fu realizzato, a questo punto, non sono poi così determinanti.
Resta ovviamente più incerto il terzo livello, quello delle coperture politiche, interne ed estere.
Nelle parole di Pasolini che aprono questa recensione, e che lo stesso regista ha richiamato pubblicamente, c’è tutto quello che sarebbe servito al film: Giordana invece non è stato in grado di fare il lavoro dell’intellettuale, che è quello di restituire la complessità della vita e della storia, anche attraverso l’immaginazione, la capacità d’intuizione e la forza suggestiva delle immagini e delle metafore.
E se il fuori campo, relativo alla morte di Pinelli, è forse giustificabile anche drammaturgicamente, per alimentare il senso d’isolamento di Calabresi, l’ellissi dell’omicidio del commissario su cui si chiude il film, appare l’ennesimo punto debole di un racconto che preferisce non mostrare, preferisce rimuovere le asprezze e il sangue, dimostrando di non aver compreso che la radicalità e gli eccessi di quegli anni non potevano essere restituiti altrimenti.
L’eccidio di Piazza Fontana avrebbe meritato un film meno pacificato e meno elementare, rispetto a questo Romanzo di una strage, che sceglie invece di affidarsi interamente alla bravura degli interpreti, per restituire la dignità di uomini ai suoi protagonisti, troppo spesso ridotti a simboli e bandiere ad una dimensione, da sventolare a comando.
Non è poco, ma non basta.
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