Cannes 2011. Il quarto giorno

La proiezione mattutina delle otto e mezza, ci riserva una sorpresa deliziosa e inaspettata.

THE ARTIST di M. Hazanavicious ***

Concorso

Ultimo film scelto per il concorso ufficiale di questo Festival, The Artist e’ una straordinaria operazione di recupero nostalgico e intelligente della tradizione classica dello studio system hollywoodiano, che racconta la storia di un attore dei tempi del muto, George Valentin, un divo della vecchia scuola, audace, coraggioso, divertito e dotato di due baffetti alla Clarke Gable, che finisce per essere travolto dall’avvento del sonoro, a cui non si vuole piegare e dalla crisi del ’29, che lo lascia solo e sul lastrico.

Siamo dalle parti di Cantando sotto la pioggia, evidentemente.

E come nelle piu’ classiche storie di Hollywood, alla sua rovinosa caduta, dall’Olimpo alla polvere, si contrappone l’ascesa prodigiosa di una sua giovane fan, Peppy Miller, che ha il suo momento di celebrita’ quando si scontrano, letteralmente, dopo un’anteprima del film Russian Affair e che piano piano, da comparsa intraprendente, diventera’ la vedette della compagnia, grazie all’avvento del sonoro.

Nel melodramma di Hazanavicious non manca nulla: il menage familiare di George, che dalla noia trascolora nell’abbandono, la starlette favorita dal produttore, che si lamenta del poco spazio che il prim’attore le lascia, il maggiordomo fedele che non abbandona George, neppure nel momento piu’ triste.

E ci sono anche un piccolo cane fedele, fuori e dentro al set, pellicole che vanno in fiamme, un tentativo di suicidio, l’amore che trionfa inevitabilmente, con un colpo di genio della giovane diva, che non ha mai smesso di essere una fan del grande George Valentin.

Quello che rende pero’ The Artist un film interessante, non e’ tanto la summa di questi elementi classici, ripresi con gusto postmoderno e citazionista, da un regista evidentemente innamorato delle vecchie storie dell’eta’ dell’oro di Hollywood, quanto il fatto che Hazanavicious diriga un film come se fossimo effettivamente nel 1927. E cioe’ in bianco e nero e quasi completamente muto, se non per un sogno premonitore di George e per il finale, in cui finalmente il ritorno in scena del vecchio divo, si accompagna alla presa diretta.

Dimostrando cosi’ in modo intelligente, che per fare un grande film, non e’ necessaria che una buona idea. Tutto il resto, dalla corsa al digitale, all’insensato 3D, dal sonoro sino agli effetti speciali, sono tutti elementi accessori, colori e pennelli nelle mani di un artista, che puo’ decidere di volta in volta quali usare per rendere la sua storia piu’ efficace.

La proiezione stampa mattutina gli ha dedicato un caloroso applauso finale, per il gusto straordinario nella messa in scena e per la divertita radicalita’ dell’operazione. E’ un cinema che non c’e’ piu’ quello di The Artist, ma capace ancora di parlare al cuore del suo pubblico, senza alcuna freddezza e senza paura di usare strumenti antichi, per raccontare una storia senza tempo.

John Goodman si regala un altro ruolo  indovinatissimo, nel doppiopetto gessato del produttore intraprendente, ma dal cuore d’oro.

Jean Durjardin interpreta George Valentin con tempi ed espressioni perfette ed appare un ballerino piu’ che discreto, ma la vera sorpresa e’ Berenice Bejo, nella parte di Peppy Miller: nella finzione, come nella realta’, un volto da tenere d’occhio.

POLISSE di Maiwenn ***

Concorso

Chiariamo subito una cosa: partivamo prevenuti nei confronti di Maiwenn. L’attrice diventata regista ci aveva lasciato del tutto indifferente con Le bal des actrices, il suo precedente lungometraggio visto al My French Film Festival e non nutrivamo alcuna speranza per questo Polisse. E infatti, proiettato il secondo giorno, l’avevamo perduto, con quell’inconsapevole sollievo di chi, in fondo, non desiderava altro che perderlo.

Invece, dopo l’ottima accoglienza della stampa francese ed internazionale, l’abbiamo recuperato oggi.

Polisse racconta, con stile documentaristico, la vita della BPM, la Brigade de Protection des Mineurs, la squadra della polizia che si occupa dei reati commessi nei confronti dei minori.

Sono uomini e donne che lavorano a stretto contatto con pedofili, sfruttatori, genitori apparentemente irreprensibili, bambini abusati, abbandonati, venduti e comprati.

E’ uno sguardo che non fa sconti quello di Maiwenn: con lo stesso ricchissimo cast gia’ utilizzato per il film precedente, entra nel lavoro e nelle vite private di una dozzina di poliziotti, mettendone a fuoco ogni momento, pubblico e privato.

Lo spunto narrativo e’ dato dalla presenza con la Brigade di una fotografa, Melissa, il cui fidanzato italiano, Francesco, e’ buon amico del loro supervisore e riesce ad ottenere la possibilita’ di seguire la loro attivita’, per un reportage esclusivo.

Naturalmente nasceranno all’inizio dubbi e incomprensioni su cosa possa essere ripreso e quando. Ed e’ il modo intelligente che usa la regista per raccontarci anche i suoi dubbi sull’opportunita’ di mettere in scena interrogatori imbarazzanti, bambini che piangono, madri e padri che confessano.

L’abbiamo detto a proposito dell’austriaco Michael: in un festival in cui questi primi quattro giorni ci hanno consegnato storie durissime di bambini e adolescenti violentati, rapiti, abbandonati, vendicativi, occore comunque porsi l’interrogativo etico sulla liceita’ di coinvolgere ragazzini, sia pure solo nella finzione del cinema, in situazioni e contesti cosi’ dolorosi.

E questo e’ un altro merito di Maiwenn, che sta accanto ai suoi interpreti, con maturita’ e sguardo rigoroso.

Le vittime ci sono e ci sono anche i responsabili, ma quasi sempre la violenza rimane fuori campo, la squadra arriva spesso quando la violenza e’ gia’ stata commessa, quando occorre ricostruire l’accaduto, basandosi spesso su testimonianze riferite, reticenti, piene di dubbi, talvolta inattendibili.

Polisse segue la vita della Brigade in un tour de force che ci fa comprendere, ancora una volta, che il lavoro della polizia non contempla una vita privata, o meglio che finisce per vampirizzarla, in lunghe nottate di indagini, pedinamenti e perche’ no, anche festeggiamenti, in un cameratismo assoluto che ricorda quello dei poliziotti senza tregua dei film di Michael Mann.

Polisse diventa cosi’ il manifesto di questa prima settimana di festival, segnato indelebilmente dall’infanzia negata.

Certo in un film lungo oltre due ore, c’e’ qualche caduta di tono, il finale appare sbrigativo e inutilmente melodrammatico, il personaggio di Melissa e’ un po’ troppo scritto, ma ad un film coraggioso come Polisse, si perdona volentieri qualche imperfezione.

E non pensiate che si tratti del solito pseudo-documentario tutto lacrime e sangue: in Polisse si ride molto, anche per esorcizzare fatti e parole, spesso indicibili.

I magnifici dialoghi senza censure, scritti dalla stessa Maiween con Emmanuelle Bercot, potrebbero creargli qualche imbarazzo nell’Italia perbenista e bacchettona di oggi, dove persino un incendiario come Moretti, si scopre pompiere vaticano…

Gli interpreti sono in stato di grazia: Karin Viard, il rapper Joeystarr, Marina Fois, Nicolas Duvauchelle, Karola Rocher, Emmanuelle Bercot, Frederic Pierrot, Arnaud Henriet, sembrano tutti realmente usciti dalla squadra BPM. Sono invece solo splendidi attori, chiamati ad interpretare un copione formidabile.

Ogni tanto ai festival le giurie assegnano un premio all’intero cast di un film, a segnalare il lavoro di squadra di un gruppo di attori particolarmente affiatato: se questo ha ancora un senso, non c’e’ dubbio che Polisse potrebbe certamente aggiudicarselo.

MARTHA MARCY MAY MARLENE di S.Durkin **1/2

Un certain regard

Arriva direttamente dal Sundace Film Festival l’opera prima di Sean Durkin, che si iscrive di buon diritto nel filone principale di questo festival, raccontando un’altra ragazza umiliata e offesa.

Il film descrive il traumatico ritorno a casa di Martha, adolescente in fuga da una comune, retta con mano salda e fascino inquieto, dal violento Patrick, capo di una piccola setta.

Non sapremo mai perche’ Martha ci e’ entrata, ne’ che fine hanno fatto i suoi genitori. Sappiamo solo che una mattina, stanca delle regole, solo apparentemente liberali, del culto di Patrick, fugge dalla fattoria in cui vivono tutti assieme, per ritornare alla vita dalla sorella Lucy.

E’ piena estate, Lucy ed il suo prossimo marito sono in vacanza in una villetta sul lago ed accolgono Martha a braccia aperte, dopo due anni di silenzio, angoscia e tormento.

Ma la convivenza con la giovane non sara’ facile, perche’ la cattivita’ a cui e’ stata educata non ha nulla a che vedere con le regole sociali della nostra societa’. Martha fa il bagno competamente nuda, irrompe in camera da letto, mentre Lucy ed il futuro marito fanno l’amore, ha attacchi di panico e violente eruzioni verbali, in cui dimostra di avere assimilato forse irreparabilmente linguaggi e comportamenti di un culto malsano.

Pian piano, tra allucinazioni e sogni, vengono alla luce momenti della vita di Martha presso la comune di Patrick, che chiariscono lo stato di totale prostrazione della ragazza, che ha dovuto rinunciare alla propria identita’ ed al proprio nome e che ha subito, come tutte le altre ragazze, un’iniziazione alla violenza, capace di minarne volonta’ e ambizioni.

Ed e’ proprio nell’annientamento di se’ e nella ricostruzione di un io completamente plagiato e reso docile, che la setta ottiene fedelta’ assoluta. Martha viene allora immediatamente ribattezzata Marcy May da Patrick, quindi sedata e stuprata, quindi addestrata ad usare le armi, infine ridotta, per chiunque dovesse entrare in contatto con lei ad un nome collettivo, che lei e le altre devono usare: Marlene Lewis.

E’ un microcosmo crudele quello costruito dal terrificante Patrick e dietro l’apparente liberta’ si nasconde una gerarchia feroce e una violenza tanto piu’ penetrante quanto improvvisa. Durkin sta dalla parte di Martha. Passato e presente si confondono nello sguardo perduto della ragazza, ma non e’ tanto importante quello che e’ successo in quel periodo, quanto la difficolta’  a rientrare nel mondo dei vivi, dopo aver trascorso da zombi narcotizzati e indottrinati alcuni degli anni migliori della propria vita.

Un’atmosfera malsana, di continua tensione emotiva e psicologica, dona al film un tono originale e riuscito, insinuandosi sotto pelle e rimanendo nella memoria qnche quando le luci in sala si sono ormai accese.

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