L’esordio nel lungometraggio del coreano Kim Chang-hoon è un melò criminale cupo e disperato, in cui non manca davvero nulla: padri ubriaconi e violenti, adolescenti costretti a saltare la scuola per lavorare per una banda di ladri di moto, strozzini senza pietà, politici corrotti, bambini malati, relazioni tossiche.
E’ un mondo oscuro quello mostrato da Kim, che racconta l’ascesa criminale di Yeon-gyu nella cittadina immaginaria di Myeongan: il protagonista comincia il film fracassando la testa di un compagno di scuola con una pietra e continua di atrocità in atrocità, cercando di mantenere un briciolo di umanità e integrità residue.
Yeon-gyu vive con la madre. Assieme a loro, il nuovo compagno della donna e la figlia Hayan, avuta da un precedente matrimonio. E’ per difendere Hayan che il protagonista si è messo nei guai. Ma quel primo colpo sferrato sarà l’origine di tutti i suoi problemi. La sua famiglia ha bisogno di soldi per rifondere il danno al ragazzo picchiato da Yeon-gyu e Chi-geon, un piccolo criminale locale, accetta di aiutarli. Quei soldi prestati corrompono definitivamente il protagonista, che finisce per lavorare per la banda di ladri di motorini di Chi-geon.
Quest’ultimo risponde tuttavia al padrino locale, che gestisce i traffici loschi e l’usura nella piccola città e che ha in pugno uno dei candidati locali nelle imminenti elezioni.
Yeon-gyu sale i ranghi criminali anche se non riesce fino in fondo ad adattarsi alla brutalità feroce della banda. Quando il padrino gli chiede di assassinare il politico, ritiratosi dalle elezioni per non diventare il suo burattino, il protagonista cerca di sistemare le cose in modo diverso, tuttavia il male fatto finisce per ritorcersi contro di lui…
Il film di Kim è troppo lungo, compassato, incapace di trovare il suo ritmo e anche le eruzioni di violenza sono più brutali che efficaci: il film mantiene uno spleen malinconico, che annulla i meccanismi di genere e immerge i suoi personaggi in un pantano di volontà confuse e destini segnati.
Ancora piuttosto acerbo, il film arriva a Un certain regard sull’onda della ritrovata attenzione al cinema coreano contemporaneo, tuttavia non si si distingue in quasi nulla, non nelle interpretazioni, piuttosto ordinarie, nè nella costruzione drammatica, neppure nella dimensione puramente action o per l’originalità dei temi.
Peraltro, contrariamente a quanto possa far immaginare il titolo, una fiammella di speranza nel finale rimane pienamente accesa, rappresentata da una fuga da Myeongan che lascia aperta ogni possibilità.