Cannes 2023. Asteroid City

Asteroid City *1/2

Che cosa è diventato oggi il cinema di Wes Anderson? Una firma e niente altro.

Uno stile amatissimo e imitatissimo, buono per i reel di instagram, ma completamente sterile.

Subito dopo Moonrise Kingdom, che aveva aperto Cannes undici anni fa, il suo cinema si è fatto puro spettacolo d’attrazione scopica. Purtroppo il successo crescente dei suoi ultimi lavori di pura confezione lo ha spinto a continuare su una strada che ora mostra tutti i suoi limiti.

Il suo cinema ormai si risolve tutto nell’attenzione maniacale alla costruzione dell’inquadratura, con simmetrie centrali impareggiabili, campi e controcampi perfettamente misurati, una dedizione da miniaturista per gli oggetti, le macchine, i colori e le forme dei diner, delle gas station, dei cottage.

Tutto lo sforzo creativo sembra esercitarsi sui colori e la foggia degli abiti, il make up e le acconciature vintage, la creazione di un’atmosfera retrò che questa volta in particolare sembra debitrice delle illustrazioni degli anni ’50, con un deserto immerso in una luce calda e piatta, senza sfumature e senza ombre, quasi disegnato si direbbe.

Tutto questo enorme sforzo produttivo e di cura nasconde purtroppo una storia esile come un filo d’erba.

Nella città immaginaria di Asteroid City,  vicino alle Tomahawk Mountains, si fermano per caso o per necessità i protagonisti di questa storia: il fotografo di guerra Augie Steenbeck, con i suo quattro figli tra cui il più grande Woodrow che tutti chiamano Brainiac, l’attrice Midge Campbell accompagnata anche lei dalla figlia nerd, quindi una scolaresca in gita con la professoressa di scienze.

In una base militare poco distante l’esercito, guidato dal Gibson, sperimenta test con l’atomica.

Una notte però, in occasione della consegna dei premi scientifici ai geniali ragazzini presenti in città, da un oggetto non identificato scende sulla Terra un alieno che ruba il piccolo frammento di asteroide che dà il nome alla città.

Il presidente mette in quarantena Asteroid City e così tutti i personaggi sono costretti a convivere per diversi giorni in mezzo al deserto.

I tre atti con epilogo in cui è rigidamente diviso il film, sono immersi in una cornice metacinematografica in bianco e nero: quello che vediamo è in realtà l’incipit di un lunghissimo serial televisivo, creato dallo sfortunato Conrad Earp e diretto dal regista Schubert Green. Tra gli intermezzi che raccontano la nascita della storia, l’incontro con l’attore protagonista e i metodi poco ortodossi del suo regista, ce n’è almeno uno riuscitissimo ambientato in una sorta di Actors’ Studio con Willem Dafoe nella parte di Strasberg. Troppo poco e troppo tardi.

Dopo un’inizio divertente e divertito, in cui la cornice e l’introduzione dei personaggi sembra funzionare simbioticamente, riportando un po’ di leggerezza e acume nel cinema di Anderson, purtroppo il film si impantana nel deserto e si arrende subito alla sua stessa inconsistenza.

Neppure Anderson sembra crederci più e l’ultima parte è davvero tirata via dal punto di vista narrativo.

Con Asteroid City siamo molto oltre la maniera, siamo al formalismo fine a se stesso, lontanissimo da quell’umanità che animava i Tenebaum o Rushmore o lo stesso imperfetto Steve Zissou.

I personaggi girano completamene a vuoto, i dialoghi fittissimi e pieni di inutili termini scientifici, coprono con la logorrea l’abisso di nulla su cui sono costruiti. Anche questa volta, ancor più che in French Dispatch, Anderson non sembra avere nessun interesse per il racconto. Lì se la cavava con tre diversi episodi, tre corti assemblati con il pretesto delle sezioni della rivista. Questa volta non se ne cura neppure: viene quasi il sospetto che questo Asteroid City non sia altro che un quarto capitolo tagliato dal film precedente e reso autonomo.

In un film di Wes Anderson vogliono esserci tutti. Perchè è di moda, è cool, fa curriculum e l’autore non si tira indietro. Anche questo ultimo Asteroid City è così una passerella infinita di star che campeggiano sulla locandina e che probabilmente hanno passato solo mezza giornata sul suo set. Con risultati francamente rivedibili e che servono solo a distrarre.

Neppure il ritorno di Jason Schwartzman alla centralità che aveva nei primi film di Anderson riesce a salvare questo nuovo lavoro dal naufragio nella noia più perniciosa.

Talento sprecato.

 

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