Ennui-sur-Blasé.
Maltradotto: Noia sull’indifferenza.
E’ in questo piccolo immaginario paesino francese che ha sede la redazione del French Dispatch, già Picnic, supplemento domenicale dell’Evening Sun di Liberty Kansas, guidato con spirito paziente da Arthur Howitzer Jr., figlio del proprietario del giornale, fino alla fine dei suoi giorni, nel 1975.
Un altro mondo, un’altra Europa, un’altra professione.
Howitzer Jr. è appena morto, il giornale sta per chiudere, rispettando così le sue ultime volontà e il film si incarica di raccontarci quello che è stato, attraverso tre storie delle sue firme principali.
La prima, narrata da Herbsaint Sazerac, è quella della sezione cultura: un mercante d’arte Julien Cadazio, scopre casualmente ad una mostra dei detenuti di un manicomio criminale, un talento straordinario, Moses Rosenthaler.
Il pittore, in carcere per avere ucciso due baristi si è innamorato di una delle guardie, che posa per lui nuda, dandogli l’ispirazione per i suoi lavori rivoluzionari.
La seconda raccontata da Lucinda Krementz, la cronista politica, rievoca un Maggio francese vissuto su una scacchiera, tra femminismo, rivendicazioni, amore e radio: protagonisti due studenti, il carismatico scacchista Zeffirelli e Juliette, la sua ragazza, che mette in crisi il suo Manifesto politico.
La terza invece che dovrebbe appartenere alla sezione di cucina, è la storia di uno Chef che lavora per il commissario della polizia cittadina, coinvolto nel rapimento del figlio del poliziotto.
A raccontarla Roebuck Wright, un giornalista di colore che è un omaggio a James Baldwin e A.J. Liebling.
Il finale è l’inizio del necrologio che la redazione collettivamente dedica al suo direttore.
Il film di Anderson è evidentemente un sentito e affettuoso omaggio alla cultura del New Yorker, ai suoi autori, alle sue storie: racconti e personaggi del film sono ispirati ad alcuni celebri articoli della rivista.
In un cast sontuoso e praticamente infinito, in cui tuttavia quasi tutti appaiono per la durata di un cameo è Angelica Huston a prestare la sua voce narrante al quadro all’interno di cui si inseriscono le tre avventure.
La cura maniacale per il dècor, le scenografie, i fondali raggiunge nuovi vertici, i costumi di Milena Canonero funzionano magnificamente sia nelle parti in bianco e nero, sia quando improvvisamente il film prende colore.
I toni pastello, gli azzurri, i gialli, i rosa sono ancora la cifra ricorrente della fotografia dell’immancabile Robert Yeoman.
La colonna sonora di Desplat, premio Oscar per Grand Budapest Hotel, accompagna discretamente le immagini, esattamente come ci aspetteremmo, sottolineando la diversità di toni e accenti, che pure il film tocca.
E allora cos’è che non va in questo decimo film di Anderson? Cos’è che lascia la sensazione d’incompiuto, di superficialità, di una freddezza glaciale?
Come accade sovente, il risultato è purtroppo inferiore alla somma delle sue parti: la cornice è debole narrativamente, Bill Murray appare in un pugno di scene appena e la sua scomparsa è poco più di una nota a piè pagina, in un film che si risolve banalmente nell’accostamento di tre cortometraggi, che lasciano il tempo che trovano.
L’impressione generale è di una maniera che travolge tutto: tanto curata e maniacale la messa in scena, tanto superficiale e fiacco il racconto. La “lettera d’amore al giornalismo” sembra scritta da un anatomo patologo. Senza sentimenti, senza tenerezza, senza affezione.
L’attenzione di Anderson è tutta rivolta al linguaggio visivo, all’ennesima cesellatissima messa in scena delle sue ossessioni illustrative, con i personaggi che si muovono come in una di quelle famose strisce a fumetti che pure erano una parte importante dello spirito del New Yorker.
In un film che affastella personaggi, scritte, note riempiendo lo schermo sino a farlo strabordare di informazioni, alla fine non rimangono tracce di vera umanità. Perchè quello che doveva essere centrale, ovvero il giornale, la sua redazione, i suoi giornalisti, le sue storie, diventa invece marginale. Puro orpello, per giustificare un discorso ancora più radicale sulle modalità espressive del suo regista.
Dei tre articoli, solo il primo ha la brillantezza che di solito associamo al cinema di Wes Anderson, anche grazie alla nota di follia che ci mettono Benicio Del Toro e Tilda Swinton e allo sguardo allucinato di Adrien Brody, mercante d’arte scaltro, truffato dalla sua scoperta.
Gli altri due sono riff stucchevoli, che non trovano mai il modo di accendere una fiammella di interesse, bruciando peraltro uno Chalamet generosamente centrato.
E così il film pian piano si spegne, sommerso dai suoi stessi calembour visivi, che comprendono anche una piccola parte animata.
Segno evidente che l’unica cosa che interessa ad Anderson in questo momento è continuare a giocare.
Una delusione.