Dopo aver messo il suo nome sulla mappa del cinema francese con La Bataille de Solferino, in cui personale e politico finivano per collidere il giorno delle presidenziali francesi, la Triet aveva trovato nel 2019 la via del concorso ufficiale di Cannes con lo sciagurato Sybil, un melò senza capo nè coda, tra cinema e analisi, con un cast totalmente sprecato.
Questa volta ci riprova con un dramma giudiziario scritto in modo impeccabile assieme al compagno Arthur Harari, a sua volta attore e regista.
Anatomie d’un chute è esattamente quello che il titolo suggerisce con un linguaggio medico legale.
La caduta è quella di Samuel, un professore quarantenne con velleità frustrate di scrittura, deceduto in circostanze non chiarite una mattina d’inverno davanti al suo chalet di montagna, vicino a Grenoble.
A trovarlo è il figlio Daniel, al ritorno da una passeggiata con il suo cane. L’unico indiziato per la procura è la moglie Sandra, scrittrice di successo di origini tedesche, l’unica in casa al momento del decesso.
Le possibilità, dopo le analisi forensi, l’autopsia e le prove con i manichini sono solo due: Samuel può essere caduto o essersi buttato dal sottotetto dove lavorava all’isolamento dello chalet, oppure qualcuno – probabilmente Sandra – l’ha colpito brutalmente facendolo cadere dal balcone del secondo piano.
Assistita dall’Avvocato Vincent, con il quale probabilmente ha avuto una storia, Sandra è l’imputata perfetta per l’accusa. Gelida e razionale, capace di organizzare perfettamente la sua vita, amorevole, ma non ossessiva con il figlio Daniel, bisessuale e traditrice.
La registrazione di un litigio che la vittima ha salvato il giorno prima di morire per un progetto di auto-fiction e la presenza di tre macchie di sangue su un capanno vicino a dove è stato trovato il corpo, sembrano le uniche armi dell’accusa.
Sullo sfondo resta l’incidente che quattro anni prima ha lasciato Daniel ipovedente, minando il rapporto trai due coniugi in maniera irreversibile.
Dopo un inizio in cui è difficile comprendere dove la Triet intenda puntare davvero il suo sguardo, quando comincia il processo, Anatomie d’un chute diventa più semplicemente un ottimo film di genere, un dramma processuale in cui il cinema francese – da Saint Omer a Un’intima convinzione, fino a La corte – sembra eccellere ultimamente, riuscendo a restituire il formalismo teatrale del processo con la capacità di scavo psicologico e di ricerca della verità attraverso la parola.
Chi è davvero Sandra e qual è l’onda del destino che ha travolto il marito Samuel? Il film cerca di fornire una risposta testimonianza dopo testimonianza, con una capacità di tenere alta la tensione decisamente invidiabile.
Del tutto originale invece, per altri ordinamenti giudiziari, il ruolo del figlio undicenne Daniel, a cui il tribunale assegna un curatore speciale perchè non subisca pressioni esterne e che appare decisivo con le sue due testimonianze, per indirizzare la giuria.
E’ davvero possibile nella giurisdizione francese costruire il processo sulla testimonianza controversa di un bambino? E’ ammissibile la sua presenza alle udienze? Il film sembra porsi molte domande giuste, ma alla fine più che restituirci un vincitore e uno sconfitto, come ammette Sandra al suo avvocato, quello che interessa alla Triet è fare la radiografia di una relazione sentimentale e familiare, nel momento della fine, strutturando un processo voyeristico, in cui media, avvocati, parti ed esperti assumono un ruolo e si sentono in diritto di dire la loro, mentre il mistero di una vita spezzata troppo presto rimane inevitabilmente irrisolto.
I frammenti di un discorso amoroso finiscono per diventare battaglia d’aula, terapia di coppia fuori tempo massimo, nell’impossibilità di rimettere assieme i pezzi, se non a beneficio di una giustizia che pretende una verità.
Su tutto resta soprattutto l’interpretazione di Sandra Huller, scoperta a Cannes nella commedia Toni Erdmann, e qui capace di attraversare il film dalla prima all’ultima scena con una ambiguità di cui la Triet si nutre. Senza la sua determinazione, i suoi pianti improvvisi, le sue parole giuste e il suo equilibrio, il film avrebbe potuto deragliare nel melò più improbabile. Il rigore della sua interpretazione, la candida certamente ad un premio nel palmares finale.
Alla fine sarà Palma d’Oro del 76mo Festival di Cannes.
In Italia con Teodora.