The Whale

The Whale **

Il nuovo film Darren Aronofsky torna in concorso a Venezia a distanza di cinque anni dal disastroso mother!, nel tentativo di rimettere sui binari giusti una carriera fatta di fermate incongrue, stop improvvisi e completamente deragliata dopo Il Cigno Nero.

Adattando per lo schermo la pièce teatrale di Samuel D. Hunter del 2010, il regista newyorkese entra dentro l’esistenza di Charlie, un professore di lettere dell’Idaho, talmente sovrappeso da non essere più in grado di uscire di casa: vive seduto sul proprio divano, da cui si alza solo grazie ad un deambulatore, legato alla civiltà e ai suoi alunni grazie al suo computer.

Terminata la sua lezione online rigorosamente con il video oscurato, viene colto da un infarto. A salvarlo un giovane missionario che bussa alla sua porta e lo aiuta a calmarsi, leggendogli la tesina di un suo alunno su Moby Dick.

A aiutare Charlie, sempre più incapace di provvedere a se stesso, c’è la piccola, ma energica infermiera Liz: inutilmente lei cerca di convincerlo a ricoverarsi in ospedale, poi gli salva la vita quando sta per soffocare mentre mangia, gli porta l’ossigeno e una sedia a rotelle speciale per obesi.

Nella sua vita solitaria rientra anche Ellie, la figlia adolescente, solitaria e problematica, ostile e irascibile, che ha tuttavia bisogno del suo aiuto per riuscire a diplomarsi.

Quando Charlie e la moglie Mary si sono separati nove anni prima, i rapporti con la ragazzina si sono bruscamente interrotti, lasciandole solo dolore e risentimento.

Charlie si era innamorato di un suo alunno, Alan, il fratello di Liz, morto poi prematuramente, spingendolo verso il baratro di un costante e sproporzionato aumento di peso, che ora mette a repentaglio la sua sopravvivenza.

Quando Ellie scopre però che il padre ha tenuto da parte per lei tutti i suoi risparmi di una vita, decide di ricominciare a vederlo, spinta solo superficialmente da un sentimento opportunistico.

Tutto chiuso nello spazio angusto dell’appartamento di Charlie, con la sola eccezione della primissima inquadratura, che mostra un autobus fermarsi ad un crocevia in mezzo al nulla, nell’America rurale, il film di Aronofsky acquista una dimensione solo nei limiti della performance fuori misura di Brendan Fraser, che grazie al trucco prostetico e agli effetti speciali interpreta il mastodontico Charlie, un uomo dal cure puro, che la vita ha tradito molte volte, incapace di relazionarsi con gli altri fino al punto di auto-recludersi nel suo appartamento dialogando al buio solo coi suoi studenti.

Fraser ci mette molto di suo in un personaggio che ha scelto la via dell’autodistruzione e dell’annientamento. Il declino personale e fisico, vissuto dopo gli exploit de La mummia, sembra donare a Charlie non solo il suo talento drammatico ma un barlume di onestà, di necessità, in un film che non riesce quasi mai a scrollarsi di dosso l’impressione di essere fasullo e manipolatorio.

Il film è scandito dal susseguirsi dei giorni della settimana, che segneranno per Charlie il tentativo di fare i conti con se stesso e con i propri affetti prima che sia troppo tardi, perdonando tutti e annientando qualsiasi cattiveria altrui, annegandola in una melassa di fede, speranza e carità che conduce inesorabilmente all’ascensione.

Attorno a lui personaggi che sono solo testimoni necessari del suo martirio, pure funzioni narrative: Thomas, il giovane missionario, che torna più volte a trovarlo, spinto da un’illuminazione più laica di quanto sembri all’inizio; Liz che cerca di tenerlo in vita il più possibile, prendendosi cura di lui ed è forse l’unica persona a cui stia davvero a cuore la sua sopravvivenza; la figlia Ellie che è un concentrato di ostilità adolescenziale, tra aggressività e risentimento, per un passato che non vuole comprendere nè perdonare; quindi l’ex moglie che arriverà al suo capezzale un attimo prima della fine, senza sospesi da saldare, lasciando al protagonista solo la constatazione di una diversità incolmabile tra cinismo e positività.

“Devo sapere di aver fatto almeno una cosa giusta nella mia vita”: spinto da questo desiderio finale, Charlie invita i suoi alunni alla sincerità, Thomas a tornare sui suoi passi riabbracciando la sua famiglia e la figlia a trovare la sua voce, attraverso la rabbia.

Il film di Aronofsky è tuttavia un melodramma che sfonda costantemente il patetico, che non lascia mai dimenticare le sue origini teatrali, che pesano come un macigno sia sulla costruzione drammatica, sia nello stile elementare, scelto per la messa in scena.

Si sentono sempre gli ingranaggi muovere i personaggi secondo traiettorie che non hanno alcuna naturalezza e spontaneità. Ciascuno interpreta il suo ruolo sino in fondo, mentre si assiste al film come davanti ad un palcoscenico. Per rompere la distanza, Aronofsky gioca agli eccessi, come suo solito, e usa mano pesante per manipolare azioni e sentimenti, fino a chiudere la parabola cristologica di Charlie in una improvvisa lievitazione celeste.

Assieme al fidato direttore della fotografia Matthew Libatique, il regista questa volta ha scelto un registro stilisticamente opposto a quello utilizzato in mother! e lontano anche dai pedinamenti dardenniani precedenti e dagli eccessi postmoderni di Requiem. La macchina da presa è invisibile, si muove pochissimo, quasi sempre su traiettorie orizzontali e privilegiando i primi e primissimi piani, inchiodando Fraser alla sua immobilità.

Vicino paradossalmente a L’albero della vita più che agli altri suoi film, The Whale è un altro viaggio nel corpo e nel suo martirio. Qui non ci sono le violenze e la droga, i muscoli gonfiati e i punti sparati nella pelle o i piedi sanguinanti. Questa volta il tema è la misura. O meglio, la dismisura. Il corpo enorme e flaccido di Charlie è la manifestazione del suo dolore, della sua inadeguatezza, della sua rinuncia alla vita.

Una rinuncia che è un atto di accusa implicito per chi è stato giudicato e emarginato, prima come omosessuale, poi come padre assente, infine come gigante deforme.

Aronofky però è incapace di alcun vero discorso sulla devastazione del corpo e sul nostro rapporto perverso con il cibo. Anche dal punto di vista della costruzione identitaria, il personaggio di Charlie è eccessivamente manicheo, tra omosessualità repressa, bontà da libro cuore, sacrificio autolesionistico.

I riferimenti cristiani restano grevi, così come quelli letterari a Melville, da cui il film prende il suo titolo. The Whale è incapace di essere davvero disturbante, non riesce neppure a mettere alla berlina l’inutile cattiveria altrui, il pregiudizio, semplicemente il disgusto.

Il cinema di Aronofsky rimane un cinema fatto di scene madri, compiaciuto, programmatico, privo di alcuna leggerezza e ironia, che continua a lasciarmi freddo: nonostante gli eccessi melodrammatici, The Whale finisce paradossalmente per allontanare e funziona solo grazie alla sensibilità del suo protagonista, che sul confine tra cinema e vita, incarna un uomo battuto e sconfitto, che cerca una redenzione impossibile, a Hollywood come sullo schermo.

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