Lydia Tár è una formidabile e umorale direttrice d’orchestra, capace di guidare le più prestigiose filarmoniche del mondo e in particolare quelle tedesche.
Nel corso di un’intervista al New Yorker e poi durante una lezione alla Julliard, veniamo informati sul suo smisurato curriculum, la sua ambizione, le sue passioni musicali, tra cui Bach e Beethoven, e comprendiamo quanto sia lontana dal mondo fatuo della cultura neo-progressista (?) americana, che nel crogiolo dei social network trova la sua dimensione più radicale e irrazionale.
Il suo è un piccolo mondo chiuso, in cui vivono la compagna Sharon, primo violino dei Berliner, la figlia Petra e l’assistente personale Francesca, che sogna di ottenere un posto prestigioso proprio a Berlino, occupato ancora dall’anziano Sebastian, che Tár ha ereditato quando ha sostituito il suo mentore alla guida della filarmonica.
Impegnata nell’incisione della quinta di Mahler, che coronerà finalmente il suo desiderio di completare tutte le sinfonie del compositore austriaco tanto amato da Visconti, Tár è assillata dai messaggi di una musicista che ha irretito e poi abbandonato sul piano personale e ha boicottato pesantemente su quello professionale.
Contemporaneamente, durante le audizioni – teoricamente “al buio” – per il posto di nuovo violoncellista, Tár favorisce una giovanissima russa, verso cui rivolge attenzioni non del tutto disinteressate.
Il terzo film dell’attore, poi regista Todd Field, a sedici anni dall’ultimo sfortunato Little Children, è un tentativo encomiabile di raccontare un personaggio fuori scala, un geniale dittatore, energico e trascinante quando è sul podio, umorale, infantile e manipolatorio nella sua vita privata.
Purtroppo i due piani si sovrappongono pericolosamente e in modo oggi inammissibile: la gestione disinvolta del suo potere finisce per travolgere la protagonista, incapace di trattenere i suoi istinti e di smettere di giocare con la vita delle persone.
Se nella prima parte, quella che delinea i confini del personaggio, il film è certamente riuscito e condivisibile nel suo attacco frontale alla mediocrità di studenti fragilissimi e ignoranti, ossessionati dall’identità, propria e altrui, incapaci di riconoscere il talento e l’importanza dei maestri, nella seconda parte Tár costruisce un meccanismo drammatico un po’ troppo paradigmatico, che sembra quasi voler sostenere una tesi, piuttosto che raccontare una storia.
Ecco quindi che Tár diventa così non solo un personaggio scomodo, geniale e incapace di compromessi sul proprio lavoro, ma anche un essere umano imperfetto, che condensa su di sè tutti i difetti che il plotone d’esecuzione della comunicazione social e del neo puritanesimo imperante è pronto ad utilizzare per farsi giudice, giuria e boia dei destini altrui.
La direttrice è palesemente una stronza manipolatrice – ci sia consentito per una volta un linguaggio crudo ed esplicito – che vive le sue relazioni con piena libertà e senza alcun rispetto dei sentimenti altrui. Non si fa scrupolo di abbandonare chi non le serve più e non le è più utile, di promuovere senza merito chi invece entra nelle sue grazie e nei suoi interessi, sfruttando il sesso come strumento di potere.
Il suo è il ritratto di un personaggio enorme, indecifrabile, grandioso e meschino allo stesso tempo, che si ammira senza riuscire ad amare e che si può detestare, pur riconoscendole una grandezza indiscutibile. Un carattere pieno, un grande archetipo romanzesco e, per una volta, una donna.
La sceneggiatura di Field non usa certo il fioretto, tra suicidi, fantasmi, sogni, incidenti, misteri e fughe precipitose, sembrando più interessata a dimostrare che a mostrare, perdendo per strada l’eccezionalità del suo studio su un personaggio, per un profilo più chiaramente ideologico, che gli alienerà molte simpatie, soprattutto oltreoceano.
Non è un caso allora che Marin Alsop, direttrice d’orchestra celeberrima, abbia attaccato il film di Field – dichiarando di sentirsi “offesa come donna, come direttrice d’orchestra e in quanto lesbica” – in ragione di una presunta radicale differenza che distinguerebbe uomini e donne nella gestione del potere e che Tár invece si premurerebbe di negare.
E’ un peccato che il dibattito sia scivolato così in basso, perchè invece l’originalità del film sta proprio nell’aver creato un personaggio capace di introiettare i codici della cultura dominante, maschile e patriarcale, come si usa dire oggi, facendoli propri, fino a presentarsi ad un bambino che fa il bullo con la figlia, come “il padre di Petra”.
Il film mostra sì i limiti e gli abusi di tale cultura, ma anche i punti di forza: allo studente tutto preso dalle sua ansie identitarie Tár risponde che “il narcisismo delle piccole differenze conduce al più noioso dei conformismi” e poi di fronte al suo rifiuto di studiare il misogino Bach. replica “l’architetto della tua anima è un social media. Sei un robot”.
Curiosamente il film sembra associare la libertà e la forza della protagonista al suo privilegio di classe, mostrato in tutta la sua dimensione più evidente: dalle case da rivista di architettura ai voli privati, dalle auto di lusso alle infinite pensose librerie colme di volumi. Una ricchezza però conquistata grazie al suo talento, come mostrano poi le immagini della sua casa d’origine. Significativamente allora la sua caduta coincide proprio con l’incontro con una realtà altra, quella di Olga, la violoncellista russa diventata la sua favorita, che vive in un quartiere tutt’altro che borghese.
E’ in quegli scantinati, in quei corridoi bui che Tár sembra improvvisamente costretta a fare i conti con un mondo rimosso e messo ai margini, che interroga misteriosamente la sua coscienza.
L’interpretazione della Blanchett è come al solito magistrale, illuminante, in molte occasioni decisamente sublime nel rappresentare perfettamente un’anima torturata e infedele, nonchè un’artista dal talento inarrivabile.
E anche perchè, all’interno del film, c’è un discorso sulla musica e sull’arte in generale, sulla sua forza, sulle sue tradizioni che è non solo bellissimo, ma necessario e che trova la sua sublimazione quando Tár, persa ogni cosa e ritornata nella casa d’infanzia, ritrova le vhs di Leonard Bernstein, che avevano alimentato la scintilla del suo talento, con l’umanità e la bellezza emotiva di quel ruolo così unico.
E’ in quelle immagini che il film di Field trova la sua dimensione più autentica, così come nella lezione iniziale ai giovani allievi del prestigioso conservatorio newyorkese.
Più enigmatico e trascurabile invece il finale in cui l’invito della protagonista ai suoi giovani orchestrali a valutare le intenzioni del compositore e le proprie, si scontra con un contesto nuovo, ma del tutto trascurabile e inadeguato al suo talento.
Field alla fine si riscopre moralista e punisce la hybris della sua protagonista, in ossequio a quella correttezza politica, che il film sembra voler all’inizio negare.
Per questo Tár rimane soprattutto un’occasione colta solo in parte, che il peso ideologico piega in modo innaturale, come una sorta di silenzioso ossequio allo spirito del suo tempo.
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