Attraversato da una tensione inesausta, immerso in un vortice musicale travolgente, in cui le immagini si susseguono e si accavallano a ritmo vertiginoso, Elvis non avrebbe potuto trovare miglior guida di Baz Luhrman, un regista capace di comprendere perfettamente non solo la grandezza tragica del re del rock’n’roll – morto per un overdose di barbiturici a soli 42 anni nella sua Graceland – ma anche la dimensione generosamente esagerata e kitch dei suoi show, come della sua vita.
Raccontato in punto di morte dal Colonnello Tom Parker, storico manager del cantante di Tupelo, il film comincia nel 1973, all’inizio della fine, quando il contratto capestro concluso con l’International di Las Vegas obbliga Elvis a salire sul palco per la sua residency, nonostante non stia in piedi.
Luhrmann ne approfitta per riavvolgere il nastro dei ricordi riportandoci nel Mississippi rurale degli anni ’40, quando il blues del demonio e il gospel celeste degli afroamericani influenzano il piccolo Elvis, fino a spingerlo ad incidere That’s All Right (Mama) per la Sun Recors di Sam Phillips, un’etichetta di musica nera.
Siamo alla metà degli anni ’50 ed è dopo il successo dei suoi primi 45 giri che Elvis stringe quel sodalizio con l’astuto manager, che segnerà tutta la sua carriera, nel bene e nel male.
Ciascuno farà la fortuna dell’altro, fino a quando le regole dello showbusiness e l’avidità degli uomini non finiranno per stritolare il talento di Elvis, annegato nella depressione e nelle pillole.
Il film ricostruisce la carriera cinematografica di Elvis, le polemiche suscitate dalle sue partecipazioni all’Ed Sullivan Show, il famoso special natalizio del 1968, la chiamata di leva, il suo matrimonio con Priscilla, il suo primo show a Las Vegas nel 1969.
Alla fine, sulle immagini celeberrime dell’ultima Unchained Melody suonata da solo al piano a Indianapolis poche settimane prima di morire, la ricostruzione di Luhrmann cede il passo alla realtà, per mostrarci il suo costume bianco a stento capace di contenere il suo volto segnato dagli abusi, lo sforzo evidente nel cantare, i lineamenti lontani da quelli del giovane ventenne capace di spazzare via ogni convenzione musicale.
Elvis è una biografia che abbina in modo intelligente un impianto drammatico molto tradizionale ad una messa in scena esagerata, sovreccitata, nel tentativo di restituire sullo schermo il correlativo oggettivo di quella scossa elettrica continua che gli show di Elvis provocavano nel pubblico. Emblematici sono i due concerti ricostruiti da Luhrmann: il primo a cui assiste il Col. Parker di uno sconosciuto ragazzino di provincia vestito di rosa e quello che apre la sua “cattività” a Las Vegas.
E’ nella distanza tra quei due momenti, legati invece dalla stessa funambolica capacità di intrattenere, che il film misura l’eccezionalità del suo protagonista. Con l’Eccezione di B.B.King il film evita la stucchevole carrellata di volti e voci che collaborarono con Elvis, concentrandosi invece sulla dimensione privata e politica del personaggio, continuamente frustrata dall’ecumenismo conservatore del suo manager. Particolarmente emblematica è la realizzazione del show natalizio del 1968, che il Colonnello vorrebbe familiare e stucchevolmente zuccheroso, mentre Elvis con i suoi nuovi produttori musicali, mette in piedi un clamoroso ritorno alle origini, fin dal vestito di pelle nera con cui si presenta in apertura e al finale iconico vestito di bianco sotto la grande insegna di luci rosse con il suo nome, cantando una canzone scritta sull’onda dell’emozione per l’assassinio di Bobby Kennedy, avvenuto durante le registrazioni.
Luhrmann, che comincia con la velocità del fulmine e poi rallenta per consentirci di entrare appieno all’interno della parabola umana del suo personaggio, fa di Elvis un innovatore, un uomo capace di precorrere i tempi e unire le due americhe, costretto poi a ripetere se stesso rimanendo imprigionato nel suo personaggio, fino a diventarne la caricatura deformata.
Il film mostra come non solo il Colonnello Parker, ma gran parte della sua corte, a cominciare dal padre, a capo dell’azienda di famiglia, lo spinga a scegliere sempre la strada più comune, quella meno ambiziosa e più sicura artisticamente, forzandolo a rinunciare ai tour all’estero, alle scelte cinematografiche più impegnative, a quelle musicali controverse.
Luhrmann fa così del suo Elvis un artista annientato un pezzo alla volta da un sistema interessato solo al suo sfruttamento commerciale.
Il film forse farà storcere il naso a coloro che non sopportano il suo pastiche visivo esagerato, rutilante, i suoi dolly, i suoi carrelli, il suo montaggio audiovisivo complicatissimo e prepotente, il suo stile magniloquente e manierato. In realtà almeno questa volta le scelte di messa in scena e di ritmo mi sono parse invece perfettamente coerenti con il soggetto e assolutamente pertinenti.
Mi pare infine poco significativo rimproverare a Luhrmann di continuare a fare il cinema che ha sempre fatto: è esattamente quello che ci si attende dagli autori, ovvero che ogni nuovo film sia parte di uno stesso discorso, segnandone continuità ed evoluzioni.
Austin Butler è un Elvis sensazionale, in uno di quei ruoli che definiscono una carriera e trasformano un onesto attor giovane, con tanta gavetta televisiva alle spalle e un paio di piccoli ruoli per Jarmusch e Tarantino in una star luminosissima. La sua fisicità è travolgente, la voce bassa e profonda evoca quella originale, lo sguardo languido è appena più smaliziato di quello di Presley.
L’australiana Olivia DeJonge, già protagonista bambina di The Visit di Shyamalan, qui è l’adorata Priscilla, costretta a condividere l’amore di Elvis con il pubblico infinito delle sue ammiratrici.
Infine Tom Hanks, aiutato dalla solita invadente cosmesi prostetica, si ritaglia il ruolo dichiarato del villain e del narratore, quel Tom Parker, che non era colonnello di nulla e neppure probabilmente americano, ma che ebbe l’intuizione di investire tutto nel talento fuori dall’ordinario di un ragazzino timido, per poi rinchiuderlo in una gabbia dorata per la propria avidità e i debiti di gioco.
La colonna sonora di Elliott Wheeler è portentosa nel costruire attraverso la canzoni di Elvis, cantate da lui e da altri, un percorso originalissimo e moderno.
I costumi e le scenografie di Catherine Martin sono semplicemente sensazionali e il montaggio di Matt Villa e Jonathan Redmond restituisce tutta l’adrenalina della regia di Luhrmann.
Il film è uno spettacolo formidabile, infuocato e sapientemente orchestrato, che trova anche note meravigliosamente commoventi e che regala la magia di Elvis a nuove generazioni di spettatori, nel tentativo riuscito di catturarne l’essenza, di mostrarne la forza rivoluzionaria, sensuale e liberatoria: l’America sessuofoba e razzista degli anni ’50 è ancora tra noi.
Nel concorso debolissimo di Cannes 75 cosa ci fa un film come Elvis fuori gara?