“Ogni uomo incontrerà quello che spera di evitare”.
L’iraniano Ali Abbasi ha lasciato Teheran a ventun’anni per studiare architettura a Stoccolma. Ottenuta la laurea cambia direzione e si iscrive alla scuola di cinema di Copenaghen. Dopo il corto di diploma del 2011 M for Markus, debutta a cinema con Shelley cinque anni dopo, a cui segue Border, una fiaba crudele sull’identità sessuale, che vince Un certain Regard nel 2018.
Con Holy Spider ritorna nel suo paese d’origine, per un film ambientato proprio negli anni precedenti al suo abbandono: siamo nel 2001, nella città di Mashhad, le Torri Gemelle sono appena cadute e Saeed, un padre di famiglia, costruttore, stimato nella sua comunità, si incarica di una “missione” ispiratagli dall’Imam Reza, che lì ha il suo santuario: ripulire le strade della città dalle donne impure che sono dedite al vizio, fumano, mettono i tacchi alti, spacciano droga e vendono il proprio corpo.
Così con la sua moto ogni sera si reca in piazza Tulip e raccoglie una delle prostitute che lavorano sulla strada, le accompagna a casa sua e poi a mani nude le strangola. Avvolti i corpi in un drappo nero li getta poco lontano nei campi.
Subito dopo telefona ad un giornalista locale rivendicando l’impresa e indicando dove trovare i corpi. La sua crociata ha bisogno di pubblicità.
Le indagini latitano e dalla capitale arriva la giornalista Arezoo Rahimi, con un’idea folle: non solo ricostruire i fatti intervistando parenti e colleghe delle donne uccise, ma infiltrarsi nel mondo della prostituzione e cercare l’incontro con il killer, per incastrarlo.
Nella sua impresa suicida è aiutata proprio dal cronista a cui Spider Killer, così è stato soprannominato, si rivolge telefonicamente.
Le autorità sono immobili e subiscono la pressione dalla capitale. La polizia condivide in fondo le imprese di Saeed.
Uomini che odiano le donne. Torniamo sempre all’intuizione di Stieg Larsson: il film di Abbasi in fondo racconta ancora questo. La violenza personale e quella istituzionalizzata nei confronti delle donne, della loro libertà, del loro corpo.
In una società teocratica come quella iraniana, la pressione è ancora più forte, il discredito per chi non segue le regole è una condanna morale.
Basterebbe la prima scena in cui Arezoo cerca di fare il check-in all’Hotel Asia, prenotato dalla capitale, per accorgersene: quando il concierge si accerta che si tratta di una donna sola inventa una scusa per non darle la camera, salvo fare un passo indietro solo quando la protagonista gli presenta il suo tesserino professionale.
Abbasi mostra la violenza senza mai girare lo sguardo, con un’insistenza che flirta sempre con il sadismo. Assistiamo alle imprese disgustose di Saeed, vediamo la vita scorrere negli occhi gonfi, nelle smorfie dei volti di quelle donne, a cui manca il respiro. Il film è esplicito, sin dall’incipit che segue il primo omicidio dalla prospettiva di una delle vittime.
Successivamente la regia sceglie un punto di vista oggettivo, ma assistiamo di nuovo al montare insostenibile della violenza. Ancora e ancora.
Ma accanto ai deliri esaltati di un criminale, siamo testimoni anche della risposta dello Stato, delle sue trattative sottobanco, della sua giustizia amministrata in nome di Dio, a cui porre rimedio lontano dal clamore della folla.
Una folla che prende posizione e sostiene l’impeccabile cittadino modello e la sua missione moralista.
E’ questa forse la parte del film di Abbasi che spaventa di più, ovvero quella che mostra le reazioni all’arresto e al processo a Saeed, con il sostegno dei veterani compagni d’armi del killer, dei vicini e dei commercianti.
Al contrario la miseria delle famiglie delle vittime, le spinge a non esporsi per paura dell’onta.
Il ritratto è impietoso, ma il film ce lo dipinge senza alcun rigore nella messa in scena della violenza e dell’orrore, come in quella dei sentimenti.
Abbasi usa la mano pesante, mostra tutto e troppo, resta sempre addosso ai suoi personaggi, sembra animato da uno spirito moralista, che rischia di assomigliare pericolosamente a quello del suo protagonista.
Rappresentare la violenza è sempre una sfida, che richiede un’etica che non solleciti i peggiori istinti dello spettatore, che non si faccia coinvolgere nella stessa brutalità raccontata.
Il film invece colpisce forte, ma anche basso. Dice le cose giuste, coraggiosamente, ma con un linguaggio cinematograficamente insostenibile, che rigettiamo radicalmente. Abbasi avrebbe dovuto rivedere Il Decalogo di Kieslowski, prima di girare questo Holy Spider. Gli sarebbe stato molto d’aiuto.
Ma oltre alle questioni formali, che non sono meno decisive in questo caso, ci sono anche quelle sostanziali, in un film che sembra giustificare la pena di morte, con una costruzione drammatica che spinge lo spettatore quasi a desiderarla, a considerarla catarticamente come una punizione giusta, di fronte all’alternativa che il killer la faccia franca.
E questo diventa francamente inaccettabile.
Il film si chiude sulle immagini agghiaccianti del figlio di Saeed che mette in scena gli omicidi paterni, a beneficio della giornalista che lo sta riprendendo, con la sorellina nella parte della vittima.
Altri uomini che odiano le donne.