Triangle of Sadness

Triangle of Sadness ***

Carl, modello di una nota pubblicità, è impegnato nei casting per una nuova campagna. La sera a cena con la fidanzata, l’influencer Yaya, che ovviamente guadagna molto più di lui, comincia una discussione senza fine su chi debba pagare il conto. Parità di genere, ruoli sociali, individualismo, rapporti di forza nella coppia: una lunga notte che prelude ad una sfilata involontariamente ridicola e ad un viaggio assieme, ovviamente offerto a Yaya, per farne pubblicità social instagrammabile.

Solo che sul lussuosissimo yacht da crociera le stesse dinamiche borghesi vengono amplificate ancora di più.

Durante la prima riunione, la responsabile dell’equipaggio ricorda a tutti di assecondare sempre i desideri dei viaggiatori, e che i momenti più importanti sono all’inizio e negli ultimi giorni giorni: se tutti saranno contenti fioccheranno laute mance.

Subito dopo un elicottero lancia una valigetta gialla a tenuta stagna che viene ripescata da un tender e portata in cucina. Ne escono tre barattoli di Nutella, desiderati dal ricchissimo magnate russo dei fertilizzanti che viaggia sullo yacht assieme a un genio asociale dell’high-tech che ha appena venduta la sua società, ad una coppia anziana che si è arricchita vendendo armi e a una ventina di altri facoltosi passeggeri.

Sempre assente invece il capitano Thomas Smith, chiuso in cabina, verosimilmente ubriaco. Nonostante le indicazioni contrarie della responsabile, il capitano fissa la cena di gala proprio quando è previsto mare mosso.

Quella serata si trasforma in un disastro di proporzioni epiche, con il menù raffinatissimo dello chef che finisce rigettato in un profluvio di fluidi intestinali che nessuno riesce più a trattenere. Nel frattempo il magnate russo e il capitano, sembrano gli unici a non soffrire di mal di mare e un bicchiere alla volta, si scambiano le loro visioni sul socialismo e il capitalismo, che condividono tramite l’interfono interno, con tutti gli altri passeggeri.

La nottata si chiude all’alba con un assalto dei pirati che fanno saltare in aria lo yacht: solo pochi riescono a salvarsi e si ritrovano su un isola deserta, dove i rapporti servo-padrone vengono completamente ribaltati, così come quelli sentimentali tra le coppie.

Il sesto lungometraggio di Ruben Ostlund, Palma d’oro con l’ultimo The Square, è una nuova tagliente satira sociale sulle passioni della ricca borghesia, la loro ipocrisia e le loro miserie. E‘ il terzo capitolo di un’ideale trilogia – cominciata con Forza maggiore e proseguita con The Square – sull’essere uomini nel nostro tempo. 

Il regista ha dichiarato di essere stato ispirato dai racconti della moglie, la fotografa di moda Sina Görtz.

Il film, le cui riprese erano cominciate il 4 febbraio 2020, è stato interrotto due volte a causa del Covid e arriva solo ora al concorso di Cannes, dopo che Ostlund ha testato diverse versioni di prova, forse ancora bisognoso di qualche ulteriore intervento sul montaggio, non sempre impeccabile. Tuttavia almeno fino al naufragio il film è irresistibile, travolgente e affilatissimo, come i suoi precedenti.

Dopo aver ironizzato sull’accoglienza, sul razzismo sotterraneo delle socialdemocrazie nordiche, sulla famiglia e il mondo dell’arte, Ostlund punta direttamente al denaro, lo sterco del demonio, con una riflessione non banale, ma certamente radicale su come viene accumulato, oggi come ieri, su quello che rappresenta, sugli status a cui si accompagna, su come influisce sui ruoli sociali, infine su come perde significato rapidamente, in circostanze eccezionali.

Il regista svedese è provocatorio, massimalista e non si vergogna ad usare l’umorismo più feroce, mettendo i suoi personaggi sempre a disagio, di fronte a situazioni imbarazzanti.

Non a caso la parte centrale è tutta ambientata nel corso di una crociera, là dove la dimensione piramidale dei rapporti sociali, si riproduce esplicitamente e in uno spazio fisico limitato, con in vetta i pochi ospiti ricchissimi, a cui si concede ogni vizio, a cui seguono la gerarchia dell’equipaggio, dal capitano in giù, per arrivare infine ancora più in basso a coloro che si occupano di cucina e di pulizia a bordo.

Ostlund si diverte a sovvertire la piramide, facendola letteralmente esplodere dall’interno, con la forza irriverente e grottesca del suo cinema.

Quando i naufraghi raggiungono l’isola, la solidarietà che ci attenderemmo viene ancora una volta disattesa da nuovi rapporti di forza che si strutturano sul saper fare, piuttosto che sull’avere, portando a nuove gerarchie, che utilizzano le stesse dinamiche di potere, presenti a bordo.

E’ ancora presente, sia pure in modo meno marcato, la divisione in macro-sequenze, che Ostlund sembra prendere a prestito dal cinema di Roy Andersson, tuttavia le scelte radicali dei suoi esordi sia in termini di messa in scena, sia in termini di narrazione frammentata lasciano il campo ad una semplice divisione in capitoli, che raccontano tutti – potremmo riassumere così – l’evoluzione di una moderna storia d’amore.

Tornano ancora una volta le ossessioni del suo cinema: la fragilità nascosta del rapporto di coppia, così come quella dell’uomo occidentale, la cui identità sessuale ed il cui ruolo sociale sono costantemente minacciati e messi in discussione; il conformismo del politically correct, che finisce per bloccare tutto in una questione di forme e principi; il fallimento delle istanze democratiche nelle quali i rapporti di forza possono anche variare, ma rimangono essenziali.

Come in The Square l’attacco alla nostra vacuità social è particolarmente diretto e senza filtri.

In questo quadro nel quale l’identità personale e collettiva sembra aver perso significato, il caso finisce per giocare un ruolo ancor più forte. E mai come questa volta, i personaggi di Triangle of Sadness sono letteralmente in balia delle onde (del destino).

Come sempre il ritratto d’ambiente e quello personale si mescolano alla satira più scatenata, che trova la sua espressione massima nella lunghissima indimenticabile scena della cena del capitano, che si apre con il personale che serve ostriche al caviale e champagne e si chiude letteralmente con un’esplosione di liquami, in un crescendo inesorabile che alterna gag scatologiche da film muto al duello a colpi di citazioni sempre più simili tra il capitano marxista e l’oligarca anti-comunista.

Ostlund non usa certamente il fioretto, ma la sciabola – anzi addirittura una di quelle granate prodotte da uno dei passeggeri – per far detonare le sue fantasie moraliste.

E per due terzi il film ci riesce piuttosto bene, con il suo solito stile episodico, che esplicitamente cerca il nonsense anche nel mondo dei ricchi e famosi, per sollecitare sarcasticamente una reazione nei suoi spettatori. Purtroppo l’ultimo capitolo, quello ambientato sull’isola è invece piuttosto debole, non solo perchè ricorda vagamente dinamiche parassitarie già viste troppe volte in show televisivi che infestano le tv di mezzo mondo, ma anche perchè la storia sembra quasi fermarsi, bloccata come i suoi personaggi.

Qui Ostlund avrebbe fatto bene ad alleggerire il suo film di qualche inutile minuto, arrivando dritti al finale, che ribalta ancora una volta le prospettive, aprendosi a nuove possibilità per i sopravvissuti.

L’inglese Harris Dickinson è perfetto nel ruolo imbelle di Carl, non meno della sudafricana Charlbi Dean, in quello della fatua Yaya, ma sono ovviamente i comprimari a rubare costantemente la scena. Woody Harrelson ha una sorta di lungo cameo nel ruolo del capitano, il croato Zlatko Burić incarna tutto il cinismo dell’arricchito in quelli del rotondo Dimitri, Dolly De Leon regala alla sua Abigail la stessa feroce logica capitalista, quando da semplice inserviente diventa comandante dei naufraghi, essendo l’unica a saper pescare e a sapere accendere un fuoco.

Impeccabile e calda la fotografia in widescreen di Fredrik Wenzel, con Ostlund sin da Forza maggiore. Lo yacht su cui sono state effettuate le riprese è il Christina O, una volta appartenuto ad Onassis e Jackie Kennedy.

Come già accadeva in The Square, all’interno di questo Triangle of Sadness c’è un apologo bruciante e divertito: il problema di Ostlund, anche questa volta, è riuscire a farlo emergere, togliendo a colpi di scalpello tutto il superfluo e il risaputo.

Su Amazon è disponibile il libro di Stanze di cinema dedicato a Ruben Östlund. Non perdetelo!

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