Il debutto alla regia di Riley Keough, in collaborazione con Gina Gammell, è un piccolo gioiello che sembra guardare all’universo narrativo di Chloé Zhao o a quello del nostro Jonas Carpignano, come al cinema indie americano più intimo e vero.
La sceneggiatura è stata scritta da Bill Reddy e Frank Sioux Bob, due comparse di American Honey, che proprio durante le riprese hanno conosciuto la Keough.
Ambientato nella Pine Ridge Reservation in South Dakota, ruota attorno a due protagonisti nativi americani: il ventenne Bill che ha due bambini da due ragazze diverse e il desiderio un po’ folle di allevare barboncini di razza figli del suo Beast e il dodicenne Matho, con una situazione familiare ancora più complicata, quando il padre lo caccia di casa ed è costretto a rifugiarsi da una big mama, che gestisce il traffico di meth e usa i ragazzini per portarlo nelle scuole.
Quando Bill dà una mano a Tim, il proprietario di un’allevamento di tacchini, che ha forato il suo suv con l’amante a bordo, quest’ultimo lo prende a lavorare con sè. Ma il rapporto tra Beast e i tacchini finirà malissimo proprio nel giorno di Halloween.
Matho nel frattempo viene beccato dalla sicurezza a scuola ed è costretto a vagabondare senza più un tetto, perchè il padre è stato ritrovato cadavere nel fiume e la sua casa è ormai chiusa con il compensato alle finestre.
I due finiranno per incontrarsi imprevedibilmente proprio in extremis quando le loro due solitudini esploderanno in un finale di rara bellezza poetica.
War Pony ci mette un po’ a farci entrare nel microcosmo della riserva, delinea i due caratteri prendendosi tutto il tempo necessario, ma si muove con mano salda, tra le due storie, costruendo un arco narrativo semplice ma efficace per entrambi.
Le registe hanno naturalmente scelto due attori non professionisti, che si muovono con grande naturalezza, in un ambiente probabilmente familiare.
Il quadro è desolate e come potrebbe non esserlo? I protagonisti si muovono come due sopravvissuti in un microcosmo di famiglie devastate, assenza di scuole e di lavoro, bambini abbandonati a se stessi, nessuna istanza educativa, la droga come unica possibile via di fuga: il welfare state “american way”.
Entrambi hanno dalla loro solo quello spirito d’intraprendenza così tipicamente americano: il loro sogno è diventato un incubo, eppure non si rassegnano.
Le registe ce li raccontano mettendosi al loro fianco, pedinandoli, per osservare la realtà dal loro punto di vista.
E curioso poi come l’idea della riserva diventi uno spazio concentrazionario, da cui non si riesce a fuggire. E quando i due ci provano, si trovano di fronte un minaccioso bisonte, a dissuaderli.
Il film riesce a trovare proprio alla fine una nota leggera, forse irrealistica, ma molto efficace, che se non lascia speranze, almeno si prende il gusto di una temporanea rivincita.
Da scoprire.