Paris 1967. Jean-Luc Godard, the leading filmmaker of his generation, is shooting La Chinoise with the woman he loves, Anne Wiazemsky, 20 years his junior. They are happy, attractive, in love, they marry. But the film’s reception unleashes a profound self-examination in Jean-Luc. The events of May ’68 will amplify this process, and the crisis that shakes the filmmaker will transform him profoundly, from a star cineaste to a Maoist artist entirely outside the system, as misunderstood as he is incomprehensible.
Tratto dalle memorie di Anne Wiazemsky, nipote del premio nobel François Mauriac, attrice giovanissima per Bresson in Au hazard balthazar e poi compagna e moglie di Godard negli anni cruciali del ’68 francese, Il mio Godard è una commedia che gioca con l’icona assoluta e intoccabile del cinema francese, dipingendone un ritratto curioso, dissacrante, amorevole, con le stesse armi che JLG usava nei suoi film degli anni ’60.
Hazanavicious, ritornando alla commedia, dopo l’Oscar per The Artist e il brutto passo falso del remake di The Search, si diverte qui a fare il verso ai primi film del maestro, quelli che Godard rinnegò brutalmente, dopo la svolta maoista e il rifiuto del cinema commerciale, ripetendo in Il mio Godard i suoi memorabili carrelli, le sue inquadrature, i suoi duetti, i suoi cromatismi, i suoi primi piani, copiando le scenografie de Il bandito delle 11, come l’apertura de Il disprezzo, e citando esplicitamente i film con Anna Karina.
E’ lo stesso meccanismo già utilizzato per The Artist, in fondo: raccontare una star del cinema, prendendo a prestito il suo linguaggio. Dall’omaggio all’era del muto e del bianco e nero, si passa alla libertà formale e alla caméra-stylo della Nouvelle Vague.
L’operazione è piuttosto rischiosa e si muove sul crinale tra l’omaggio affettuoso di un fan, probabilmente tradito, e la satira su un artista talmente pieno di sè e del suo presunto ruolo politico rivoluzionario, da perdere il senso del proprio talento e i suoi affetti più cari. Ma questo, naturalmente, è implicito nel punto di vista scelto, che il titoolo italiano esplicita subito: questo è il Godard visto da Anne Wiazemsky, dalla sua prospettiva di amante, ammiratrice, compagna.
L’idea di mettere in scena non il Godard giovane cinefilo, dai Cahiers ai trionfi dei primi anni ’60, ma l’artista in crisi, che vuole uccidere il proprio mito e le proprie origini borghesi, in nome del maoismo e della rivoluzione, è indovinata e originale.
Ma si può raccontare un momento essenziale della vita di un ‘venerato maestro’ come JLG, molto più discusso e adorato, che veramente visto, senza la reverenza e il piglio serio e ossequioso, che il personaggio ha sempre sollecitato nei suoi estimatori?
Si può davvero stimare e onorare l’artista sommo di Fino all’ultimo respiro, e prendere in giro il piccolo uomo, pieno di idiosincrasie, radicalismi e velleità, che litiga con Bertolucci e con gli studenti in lotta, sminuisce gli amici, fa chiudere il Festival di Cannes e tortura la giovanissima moglie, con una gelosia incomprensibile, prima di rinnegare il suo nome e rifugiarsi nel collettivo artistico ‘Dziga Vertov‘?
Le lotte di allora, messe in scena da Hazanavicious con i toni leggeri della commedia sentimentale, sembrano oggi solo un’eco lontana: i motivi, le parole d’ordine, la violenza, gli intellettuali engagé, le liti in macchina, gli attacchi alla borghesia fanno sorridere, come una foto ingiallita dal tempo, che ci ricorda un mondo lontanissimo.
L’evocazione insistente e ricercata dello stile e delle invenzioni di Godard, fuori dal loro contesto originale, rischia di ridurli a un semplice repertorio di cliché, ma è invece perfettamente funzionale al tono da commedia che il regista ha scelto.
Ci voleva il coraggio sconsiderato e un po’ incosciente di uno come Hazanavicious, lontanissimo dall’élite del cinema francese, per tentare l’impresa. I godardiani intransigenti, che sembrano ormai ritrovarsi solo alle proiezioni stampa del Grand Theatre Lumière, probabilmente stanno meditando una tortura crudele e sanguinosa, per il delitto di lesa maestà de Il mio Godard.
Per chi professa il culto-Godard, il film di Hazanavicious è un’operazione evidentemente blasfema.
E le stroncature piccate e sentenziose, che hanno accompagnato il film al suo debutto a Cannes, ne sono la testimonianza più evidente: come si permette un regista ‘leggero’ come Hazanavicious, che non viene neppure dalla gavetta dei Cahiers, di raccontare l’icona-Godard, in termini così prosaici?
Ed è un peccato che i devoti del maestro si siano dimostrati più realisti del re, perchè proprio a loro il film è rivolto, con quell’operazione irriverente di manipolazione e riutilizzo dei materiali colti, su un piano del tutto diverso, che è, questa sì, pratica godardiana par excellence.
Guardando il film senza pregiudizi, la cifra affettuosa e complice di The Artist è la stessa che ritorna, in fondo, anche ne Il mio Godard. Ma questa volta, c’è qualcosa di più: c’è il rimpianto di un amante tradito, di un appassionato un po’ deluso, di fronte a chi, come scrive la Wiazemsky, si è trasformato da “cineasta rivoluzionario” a “rivoluzionario che usa il cinema”.
Ed è questo sentimento di perdita e disillusione, che risulta inaccettabile a molti adepti del culto godardiano, unitamente al fatto che la prova superba di Garrel, ci restituisce invece un protagonista umanissimo e fallace, nelle sue ossessioni sentimentali e artistiche, come nella sua dislalia.
Il film è un divertissement che, soprattutto nella parte parigina funziona benissimo. Più discutibile e convenzionale è invece l’ultima parte, ambientata in Italia, sul set de Il seme dell’uomo di Marco Ferreri.
Eppure il regista di The Artist non inventa nulla e si affida interamente al memoir di Anne Wiazemsky, Un an après, pubblicato nel 2015 da Gallimard, che racconta in prima persona quegli anni pericolosi ed esaltanti, vissuti accanto a Godard.
La grandezza del regista parigino, la sua centralità nel cinema europeo degli anni ’60, è tutta nei suoi film, naturalmente: nessun biografia o nessuna commedia ce la potrà restituire davvero.
Hazanavicious lo sa benissimo e infatti si occupa soprattutto nel Godard uomo, amante, polemista, intellettuale, politico. E di come tutto questo abbia avuto un’influenza sulla svolta del ’68, trascinando il suo cinema fuori dai generi, spesso anche fuori dalle sale, per rinchiuderlo in una speculazione teorica, prima politica, poi tutta cinematografica e sperimentale, certamente interessante, forse anche necessaria, ma chiusa inesorabilmente in se stessa.
Quelli che andranno a vedere Il mio Godard probabilmente apprezzeranno la parodia in punta di penna di Hazanavicious: i cinefili si divertiranno forse a cogliere i numerosissimi riferimenti disseminati nel film alle opere del maestro; il pubblico, che conosce poco JLG, apprezzerà semplicemente l’ironia surreale di una ricostruzione d’ambiente particolarmente curata e di una relazione sentimentale tormentata.
Spiazzante Louis Garrel nei panni dell’irascibile Godard sessantottino, stempiatura d’ordinanza e supponenza senza fine. Incantevole Stacy Martin, oggetto del desiderio e martire delle intemperanze di JLG, novella Giovanna d’Arco, come in una delle sequenze più belle del film.
Impertinente e coraggioso, Il mio Godard rimane un film poco identificabile e in gran parte mistificato, che certo non aiuterà la carriera di Hazanavicious.
CREDITS
Michel HAZANAVICIUS – Director
Michel HAZANAVICIUS – Film Editor
Michel HAZANAVICIUS – Script / Dialogue
Guillaume SCHIFFMAN – Director of Photography
Anne-Sophie BION – Film Editor
Christian MARTI – Set decorator
CASTING
Louis GARREL – Jean-Luc Godard
Stacy MARTIN – Anne Wiazemsky
Bérénice BEJO – Michèle Rosier
Micha LESCOT – Bambam
Grégory GADEBOIS – Cournot