Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti ***

Dopo averlo visto al Festival di Cannes in una splendida mattina di maggio, mai ci saremmo aspettati che un film così particolare, riuscisse a trovare la strada della distribuzione nelle sale italiane.

Il merito certamente va attribuito alla giuria di Tim Burton, che in un concorso modesto, nel quale sarebbe stato facile premiare il bellissimo Another Year di Mike Leigh, ha preferito rischiare, segnalando al mondo il talento di questo artista thailandese, a cui ha assegnato una meritata Palma d’Oro.

Lo Zio Boonmee è un racconto che affonda le sue radici nella cultura più antica di quel popolo, nelle sue tradizioni secolari, contadine, nelle leggende dei boschi.

Apichatpong ci guida in un percorso di accettazione della morte, nella quale quest’ultima è solo un passaggio inevitabile ad una nuova forma di vita.

Il protagonista, lo Zio Boonmee del titolo, è un agricoltore e apicoltore, che sta per morire ed è costretto a letto dalla dialisi quotidiana.

Decide di ritirarsi nella foresta, per affrontare con serenità i suoi ultimi momenti di vita, assieme alla sorella della moglie e ad un nipote, che si prendono cura di lui.

Come in un racconto fantastico, il fantasma di un figlio perduto gli appare improvvisamente, una sera, presentandosi come una sorta di uomo-scimmia, dopo essersi unito ad una sorta di tribù che popola la foresta.

Lo stesso fa la moglie, morta molti anni prima. Insieme lo aiuteranno ad affrontare più serenamente il passaggio, che troverà in una grotta ancestrale il suo momento culmine.

Nel frattempo Apichatpong si perde nel bosco e divaga raccontando la leggenda di una principessa sfigurata, sedotta da un soldato, tramutatosi in un pescegatto, nei pressi di una cascata. Quindi riprende a raccontare la lenta agonia di Boonmee e la sua serena accettazione della morte. Rientrati in città per il funerale, i parenti rimarranno stregati dai poteri acquisiti nella foresta. 

Chi conosce il cinema del thailandese (Tropical Malady, Syndromes and a Century), sa che leggende misteriose e miti locali sono spesso al centro dei suoi racconti.

Il film ha ritmi dilatati: ad una prima parte più dialogata e realistica, segue, come sempre nei film del regista thailandese, una seconda in cui prevalgono il mistero, la contemplazione, la rappresentazione della notte infinita nella foresta, con tutte le sue creature sovrannaturali.

Ma anche qui il suo stile rimane mimetico, senza eccessi o forzature stilistiche: anche le apparizioni dei fantasmi sono presentate in un quadro di serena semplicità.

Lo Zio Boonmee è da prendere o lasciare: o si entra in sintonia con i suoi ritmi lenti ed il suo realismo magico ed animista, oppure lo si rifiuta in un confortevole sonno sulle poltrone della sala.

I risvolti politici e i riferimenti più controversi, che appaiono alla fine del viaggio, quando il nipote e la cognata di Zio Boonmee ritornano in città, magari sfuggono a chi non conosca a fondo la storia del paese asiatico, ma non importa: si riesce a godere la bellezza del cinema di Apichatpong, anche senza comprenderli.

Le sue notti illuminate dal mistero e le sue estatiche contemplazioni della natura sono uniche, per chi ha la pazienza di seguire il flusso della narrazione.

Il finale in cui i due personaggi si sdoppiano, annoiati dalla televisione ed assordati da un inutile karaoke, è il segno più evidente di una civiltà che ha perso completamente il senso delle proprie radici e della propria cultura: è un dolore che resta dentro e che parla anche a noi.

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