Cannes 2023. The Old Oak

The Old Oak **1/2

Solidarietà. Forza. Resistenza.

Sono le tre parole che un gruppo di siriani rifugiati di guerra in una città del Nord dell’Inghilterra ricamano sul gonfalone che regalano a TJ, il proprietario dell’Oak Pub. Sono quelle su cui si chiude l’ultimo film di Ken Loach, per la quattordicesima volta in concorso al Festival di Cannes, con uno dei suoi lavori più commoventi e sinceri.

Quando un gruppo di donne, bambini e anziani siriani vengono scaricati dal pullman che li ha portati sino nel cuore popolare e proletario di una delle nazioni più ricche del mondo, quello che trovano è ostilità e diffidenza.

Tra di loro c’è una ragazza, Yara, una delle poche che parla bene l’inglese. Scatta delle fotografie con la macchina che il padre prigioniero politico le ha regalato.

Quando uno dei giovani sbandati gliela rompe, è TJ a darle una mano, mostrandole la sala sul retro del suo pub, chiusa da oltre vent’anni: alle pareti le immagini e le parole d’ordine della storia operaia del quartiere, dal’incidente degli anni ’50 nella miniera locale allo sciopero dei minatori del 1984.

Assieme ai volontari locali TJ e Yara rimettono in sesto quella sala per offrire un pasto caldo a chi ne ha più bisogno: non solo le famiglie dei rifugiati, ma i ragazzini del posto, le donne sole, le persone in difficoltà.

Per farlo però occorre superare il pregiudizio strisciante, il razzismo xenofobo di chi pensa che umiliare chi è ancora più in basso nella scala sociale possa essere l’unica strada possibile.

Quando una notte scoppia la caldaia della sala, TJ è costretto amaramente a chiudere. Ma la solidarietà costruita nel tempo non è compromessa del tutto.

The Old Oak si segue con il cuore in gola dalla prima fotografia in bianco e nero che lo apre, sino alla cerimonia finale che lo chiude. Ken Loach sembra qui tornato ai momenti migliori del suo cinema, quando le istanze sociali e politiche lasciano da parte la denuncia militante e l’invettiva diretta, ma si fanno racconto di un’Inghilterra popolare e proletaria, di provincia, capace ancora di battersi per quei valori che il suo lavoro ha testimoniato incessantemente lungo cinquant’anni di carriera.

La solidarietà tra gli ultimi, la capacità di superare le avversità insieme, il riconoscersi tutti fratelli nei momenti più difficili. Assieme al fidatissimo Paul Laverty, che ha scritto tutti i suoi ultimi lavori, Loach non ha smesso di immaginare un mondo migliore, in cui l’integrazione può avvenire dal basso, nella comprensione di un destino comune.

Il suo resta un cinema militante e nelle occasioni in cui TJ e Yara parlano tra di loro, si sente spesso il peso ideologico degli autori, che mina l’autenticità e il realismo del racconto.

Come al solito splendide le facce degli attori, giustamente comuni e sconosciuti, capaci di incarnare senza fatica il quarto stato di Loach.

Nonostante il ritiro annunciato una decina di anni fa, Loach non smette di dirigere e raccontare. Sempre dalla stessa parte, ma senza perdere la speranza, perché “La speranza è una questione politica. Se la gente confida di cambiare le cose va a sinistra, altrimenti è preda del cinismo, della disperazione”. 

 

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