KiyoshiOze (IchinoseWataru) è un giovane difficile, più simile a un teppista che a un lottatore di sumo. Entra nella scuderia di sumo di Ensho soprattutto perché ha bisogno di soldi e perché è bravo a picchiare. Ha praticato judo, con buoni risultati, e frequentato assiduamente l’università della strada a Fukuoka, ma il sumo è diverso, soprattutto quello tradizionale, che deriva dallo shintoismo. E’ qualcosa di più di un lavoro ben pagato, è l’acquisizione di un senso da dare alla propria vita. Kiyoshi, che riceve dal suo maestro (Pierre Taki) il nome Enno[1], lo capisce poco alla volta, con grande fatica. Una conquista che è per molti aspetti simile a quella della giornalista AsukaKunishima (ShioriKutsuna)trasferita nella redazione sportiva da quella politica per essersi fatta dei nemici potenti: colta, educata negli Stati Uniti e attenta alle dinamiche di genere, si trova in un mondo maschilista, violento e con veri e propriatti di nonnismo verso le reclute (umiliazioni, sputi, botte). Per entrambi, in modo diverso, ma parallelo, il sumo sarà una rivelazione che cambierà l’esistenza.
Il santuario a cui allude il titolo è il dohyo, ma anche il corpo del lottatore che cerca di superare i propri limiti, con interminabili allenamenti, una vita comunitaria con riti ben precisi, una dietaricca di grassi e proteine per acquisire massa muscolare, una giornata scandita con i tempi propri dell’addestramento militare. Una serie estenuante di sforzi per un incontro che può durare anche solouna manciata di secondi. La differenza da altri sport è proprio nell’istantaneità del confronto, introdotto dal canto di un annunciatore e composto secondo un preciso rituale. Definire il sumo come uno sport ci sembra riduttivo, proprio per la ricchezza simbolica che lo contraddistingue, a partire dalla pettinatura dei sumo-tori, che presenta una coda con un ciuffo finale aperto a semicerchio come una foglia di Ginko Biloba, la pianta coltivata nei giardini dei templi giapponesi che protegge dagli spiriti malvagi, un tratto in comune con lo shiko, il tradizionale esercizio di riscaldamento praticato dai sumo-tori che consiste nel battere il piede sul pavimento dopo aver sollevato la gamba lateralmente il più in alto possibile. L’obiettivo è rafforzare le gambe, ma anche scacciare gli spiriti maligni. Il dohyo è un ring circolare di 4,5 metri di diametroche viene purificato dagli arbitri prima di ogni torneo con una cerimonia che invoca la benedizione celeste e consacra lo spazio all’interno del Tawara[2], rendendolo un vero e proprio santuario a cui hanno accesso solo gli iniziati, cioè i lottatori di sumo e gli arbitri. Ennoinizialmente sembra per nulla affascinato da questo mondo, nemmeno interessato a rispettarlo per quieto vivere: la sua esuberanza, la sua irrazionalità, la sua creatività non bastano a garantirgli quel successo, in primis economico, che tanto gli sta a cuore. L’obiettivodel ragazzonon è solo arricchirsi, ma anche mettere da parte i soldi per poter ricomprare il ristorante cheil padre è stato costretto a vendere per soddisfare le richieste dei creditori. La cessione dell’attività ha di fatto coinciso con la separazione dei genitori e con la fine dell’età felice di Kiyoshi. Dopo il fallimentoinfatti la madre si è allontanata, passando dalle braccia di un uomo a quelle di un altro, anche a pochi isolati di distanza dalla casa del marito, ormai rassegnato a una vita solitaria. Cosa può rappresentare il sumo per un ribellecome Kiyoshi?
In questa serie la tradizione rappresenta una via, una risposta. E non è affatto scontato. Abbiamo raramente trovato nella serialità complessa degli ultimi anni figure paterne positive come quella dell’OyakataEnsho o del lottatore espertoEnya. Intendiamoci: Sanctuarynon intende edulcorare la realtà o idealizzarla: è chiaro quali siano i sacrifici a cui va incontro un lottatore di sumo ed è altrettanto manifesto quali siano i confiniculturali di questa professione. E sottolineo il termine professione, perché di un lavoro vero e proprio si tratta, di quelli che consentono di mantenere una famiglia, come nel caso di Enya.Ci sono figure di Oyakata, letteralmente ‘maestro’,tutt’altro che impermeabili alle passioni mondane, al desiderio di successo e di potere, ma questi tratti negativi sono sostanzialmente bilanciati da personaggi cheriempiono lo schermo con il loro carisma, con i loro legami affettivi, con un senso del dovere messo a disposizione della comunità. Anche il giornalista esperto Tonkitsu (TomorowoTaguchi) che introduce la giovane collega ai misteri del sumo è una di queste figure. Per una volta l’autorità ha una sua autorevolezza, valori ben definiti; così come alcuni giovani,ad esempiol’annunciatore Shimizu (SometaniShota), rappresentano un’ottima riserva di speranza per il futuro non solo del sumo, ma anche della società nel suo complesso. Shimizu desidera praticare più di ogni altra cosa, ma capisce e accetta di non essere adatto ai combattimenti e quindi ri-orienta la propria passione diventando annunciatore. Allo stesso modo ha la capacità di vedere prima e più degli altri il talento di Kiyoshi e di supportarlo, anche quando questi fugge dalla scuderia o cade in depressione per l’insuccesso della sua vita sentimentale. Una gioventù saggia cherappresenta una potente ancora contro le derive di altri ragazzi interessati solo al denaro facile.
La storia esplora la formazione del protagonista, sia sportiva che sentimentale, con esiti piuttosto diversi. Quella sportiva procedecon ritmo e realismo, senza concessioni didascaliche: lo spettatore infatti si trova da subito immerso nei rituali del mondo del sumo, con poche coordinate che dovrà approfondire, se lo vorrà, per proprio conto. Un approccio ermetico, ma di sicuro impatto.Le vicende sentimentali invece, pur godendo di un discreto minutaggio, appaiono meno efficaci, soprattutto per la debolezza intrinseca del carattere della ragazza di Kiyoshi,Nanami, di cui non si esplorano le ragioni e le emozioni.Le trame secondarie sono solo abbozzate, a volte con caratteri schematici e un po’ cartoon, così le deviazioni da quella principale, imperniata sul percorso di crescita umana e sportiva di Kiyoshi/Enno, finiscono per apparire come elementi di disturbo più che di interesse. Questo vale anche per l’attività giornalistica di Asuka, certamente utilizzata per raccontare uno spaccato del mondo del lavoro giapponese, ma senza uno spazio narrativo adeguato finisce con l’apparire una mera denuncia delle discriminazioni di genere ancora oggi diffuse a tutti i livelli, anche in quelli culturalmente più elevati.
Qualche eccesso calligrafico, peraltro coerente con lo stile rappresentativo della serialità orientale, riguarda il passato del gigantesco lottatoreShizuuchi e la stesura degli articoli diAsuka. Sono scelte stilistiche che qui un po’ stonano per il contesto narrativo, asciutto ed essenziale,che presenta un senso estetico volutamentein sintonia con il gusto occidentale.
La rappresentazione non risparmia la violenza, ma del resto in questo caso è un elemento tutt’altro che finzionale o fuori registro perché il sumo è una lotta violenta: nei tempi passati non era inusuale che nei tornei qualche atleta potesse morire. L’addestramento del sumo-tori non ha niente da invidiare per durezza a quello di un marines e questo può certamente disturbare una parte del pubblico, così come la violenza estrema di alcuni combattimenti. Difficile non citare a riguardo la scena rallentata,più volte riproposta, in cui Shizuuchistacca con una manata l’orecchio a Kiyoshi. E’ quindi un’estetica respingente quella della serie scritta da Tomoki Kanazawa e diretta da KanEguchi (The Fable), fatta di corpi giganteschi e sudati, di muscoli tesi, di pranzi che non hanno nulla della bellezza formale e del lessico curato della retorica culinaria contemporanea, di donne tenute ai margini del dohyo e in generale della vita lavorativa, di una confraternita laica tra gli atleti che non ha niente di fraterno, ma in cui domina la competizione. Un’estetica respingente che va accolta e compresa: solo così si può coglierne l’intrinseca bellezza, sprigionata soprattutto nelle scene di allenamento e di combattimento che rendono nel migliore dei modi la forza e l’energia che sprigiona il corpo dei sumo-tori.
Nonostante qualche limite nell’ampiezza narrativa e qualche calligrafismo di troppo, Sanctuary presenta una bellezza e una ricerca di senso che la nostra epoca sembra faticare a trovare e quindi a rappresentare.
TITOLO ORIGINALE: Sanctuary
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 50 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 8
DISTRIBUZIONE STREAMING: Netflix
GENERE: DramaSport
CONSIGLIATO: a quanti hanno voglia di immergersi in un mondo del tutto originale e atemporale che ci aiuta a capire quanto la ricerca di senso sia determinante nella nostra quotidianità.
SCONSIGLIATO: a quanti cercano una storia immediata e semplice: ci vuole tempo e pazienza per assaporare appieno il sapore della narrazione e gustarne l’estetica.
VISIONI PARALLELE: per approfondire il mondo del Sumo e il suo valore nella cultura tradizionale giapponese consigliamo un libro di poche pagine di Eric-Emmanuel Schmitt, “Il lottatore di sumo che non diventava grosso” edizioni e/o 2012. Un testo che si inserisce nel ‘ciclo dell’invisibile’ che, al momento, comprende otto romanzi. Otto storie, indipendenti l’una dall’altra, che si occupano principalmente di spiritualità, a riprova di quanto questa pratica sia legata a valori che vanno oltre lo sport.
UN’IMMAGINE: ci sono molti momenti esilaranti nello show, ma una delle sequenze che mi ha maggiormente colpito ha un taglio drammatico e riguarda il taglio dei capelli di Enya Un rito in cui rispetto dei ruoli e amicizia, spirito del sumo e percorsi personali si intrecciano in modo davvero unico; la serie rappresenta questa cerimonia senza retorica, senza eccessi stucchevoli. Emozionante.
[1]Enno è lo shikona di Kiyoshi e letteralmente significa colui che fa sbocciare il fiore di ciliegio. Il ciliegio in Giappone è simbolo di purezza e di innocenza, oltre che di bellezza. Lo shikona è il nome che assume il lottatore di sumo quando sale sul ring e spesso riflette le origini geografiche dell’atleta o, come in questo caso, richiama elementi della tradizione culturale giapponese.
[2]Il tawara delimita lo spazio di gara ed è composto da balle di paglia compressa insaccate nel terreno. Da notare che l’argilla che ricopre il dohyo, detta rakida, proviene dal distretto giapponese di Chiba perché storicamente viene considerato la culla del sumo.