Cannes 2023. Perfect Days

Perfect Days ****

Il mistero della vita.

E’ quello che l’ultimo meraviglioso film Wim Wenders ci riconsegna intatto, in tutta la sua bellezza e in tutte le sue contraddizioni.

Il protagonista è un uomo solitario, di pochissime parole. Si chiama Hirayama, come i protagonisti del capolavoro di Ozu.

Lo vediamo svegliarsi all’alba con il rumore della ramazza dello spazzino. Si prepara meticolosamente, barba, baffi, denti, quindi di mette una tuta blu, prende un caffè in lattina da un distributore sotto casa e con il piccolo furgoncino blu passa la giornata pulendo i bagni pubblici di Tokyo, con la stessa cura e la stessa attenzione maniacale che ha dedicato a se stesso.

La sera si lava in un bagno comune, come ce ne sono molti in oriente, mangia in un locale – sempre lo stesso – e legge Faulkner prima di addormentarsi.

La sua è una routine rigidamente scandita dalle cose da fare. Anche nel weekend usa una lavanderia a gettone, va in un bar dove la proprietaria canta magnificamente per gli avventori affezionati e sviluppa le fotografie, che ha scattato ancora con una vecchia Olympus.

E’ una vita analogica, lontana da ogni modernità. La mattina mentre va al lavoro ascolta la musica che ama, con un autoradio a cassette: è quella che piacerebbe anche a Wenders, dagli Animals a Lou Reed, da Patti Smith a Van Morrison.

Se non fosse per quelle canzoni Perfect Days sarebbe avvolto quasi sempre nel silenzio e nei rumori di una città assai meno tentacolare di quella che il cinema ha spesso rappresentato. Una città di periferie, di piccoli scorci, di parchi, di piccole botteghe.

Hirayama non si perde mai in parole inutili. E’ un uomo che ascolta: innanzitutto il giovane assistente svogliato e distratto che lavora con lui e la sua fidanzata, che scopre la bellezza del suono del suo stereo; quindi la nipote che improvvisamente si presenta a casa sua in fuga dalla famiglia; infine l’ex marito della proprietaria del bar, malato terminale. Wenders ne fa incontri che scardinano i ritmi sempre uguali a se stessi della vita del protagonista, aprendo squarci inediti sul passato e sul presente.

Quando non lavora Hirayama osserva le ombre, fotografa un grande albero sotto cui si ferma a mangiare, cura delle piccole felci bisognose di acqua.

Quello che Wenders lascia solo intuire è che questa esistenza minima e umilissima, accettata con una serenità dignitosa e malinconica, è l’ultimo atto di una vita che ha preso strade impreviste, che ha probabilmente deragliato da binari diversi. Quando la sorella arriva a casa sua a prendere la figlia, viene accompagnata dall’autista su una enorme berlina nera. Accenna ad un padre ormai malato con cui Hirayama non parla più. Gli stessi fratelli non si vedono da anni.

Eppure in quell’abbraccio improvviso c’è tutto un mondo di parole non dette che esplode improvvisamente.

Scevro da inutili orpelli narrativi, aperto e chiuso dalle prime luci di un’alba promettente, Perfect Days è un gioiello che non pensavamo Wenders potesse ancora regalarci. La sua carriera leggendaria, cominciata con il sodalizio con Handke e con Alice nelle città nei primi anni ’70, poi proseguita con un pugno di film che hanno segnato a fuoco il Nuovo Cinema Tedesco di quegli anni, trascinandoci sul camion di King of the Road Nel corso del tempo, poi nella Amburgo della Highsmith con L’amico americano, nel deserto di Paris, Texas ad inseguire ossessioni di un amore perduto, quindi in volo nel Cielo sopra Berlino, quando era una ancora una città divisa e in bianco e nero, spingendoci Fino alla fine del mondo e poi di nuovo a Lisbona, a Cuba con il Buena Vista Social Club e infine a fianco al grande fotografo Sebastiao Salgado.

Con il nuovo secolo il suo cinema narrativo si era fatto tuttavia sempre più inattingibile, retorico, svogliato.

E invece questo ritorno in Giappone dopo Tokyo-Ga e gli Appunti di viaggio sullo stilista Yamamoto, segna uno dei momenti più sinceramente poetici del suo cinema.

Il grande Kōji Yakusho che avevamo amato in Cure di Kiyoshi Kurosawa, negli ultimi film di Imamura, in Babel e poi in The Third Murder di Kore Eda, presta a Hirayama il suo portamento dignitoso, il suo sguardo divertito, la saggezza di chi ha già vissuto molte vite e ha sepolto i rimpianti, accettando quello che il destino gli ha riservato. Wenders ne asseconda i silenzi e la presenza imponente, togliendo dalla sua sceneggiatura ogni elemento superfluo e trovando così un diamante purissimo, che riconcilia con il nostro stare al mondo.

Imperdibile.

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