Denise Cosco (Gaia Girace) ci crede veramente nel riavvicinamento tra il padre, Carlo (Francesco Colella), capo clan della mafia calabrese e la madre, Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), oramai ex collaboratrice di giustizia. Una speranza fragile che le regole non scritte della ‘Ndrangheta fanno evaporare drammaticamente, nel breve volgere di una notte a Milano. Lea scompare, per sempre. Del resto non può esserci perdono per chi tradisce: non c’è amore o legame familiare che possa salvare i traditori. Maria Concetta Cacciola (Simona Distefano) invece Milano non l’ha mai vista: esce raramente dal paese, solo per andare a trovare il marito in prigione e, anche quando accompagna i figli a scuola, deve percorrere la strada più breve ed evitare di fermarsi con le amiche. La sua è una vita da reclusa, al pari di quella del marito. Giuseppina Pesce (Valentina Bellè) lavora duramente per l’importante famiglia di cui fa parte, riscuotendo mazzette, curando l’amministrazione, sbrigando commesse e nel frattempo cercando al meglio di essere padre e madre per i figlioli, dato che anche suo marito è in carcere. Giusy però si innamora di un altro uomo e quando in una retata della polizia viene catturata tra le braccia del compagno, il suo rapporto viene scoperto. Tre giovani donne le cui speranze e i cui sogni si sono infranti contro le regole della ‘Ndrangheta. Quelle regole che ben conosce la PM Anna Colace (Barbara Chichiarelli), che punta proprio su di loro, sul loro desiderio di libertà per sé e per i propri figli, per smantellare l’organizzazione delle cosche calabresi. Diretta da Julian Jarrold (The Crown, Appropriate Adult) ed Elisa Amoruso e scritta da Stephen Butchard (Vincent, The Last Kingdom), la serie segue queste donne coraggiose nel loro tentativo di affrancarsi dal potere criminale e dalla cultura che vede la donna come un oggetto senza diritti, ma solo con doveri verso il marito, i figli, il clan. Stephen Butchard le ha definite come ‘persone ordinarie che fanno cose straordinarie’. Vero, ma forse il tratto più interessante è che ciascuna di queste donne lotta per qualcosa che noi diamo per assodato, come la libertà di scegliere chi sposare, viaggiare o anche solo passeggiare per la strada.
The Good Mothers è un racconto di lotta e di resistenza, basato sulle indagini condotte dal procuratore antimafia di Reggio Calabria Alessandra Cerreti nel 2010 e raccontate nell’omonimo libro di Alex Perry. E’ significativo che la narrazione venga presentata in ottica completamente femminile: dalle pentite al PM, passando per avvocati e perfino per le famiglie delle locali, sono le donne i caratteri predominanti, quelli verso cui la scrittura pone maggiore attenzione e cura. Agli uomini resta davvero poco: le presenze di Carlo e Carmine (Andrea Dodero) non riescono a creare dei legami profondi con lo spettatore, che di fatto non trova ancore maschili a cui aggrapparsi. E’ un segno dei tempi: come abbiamo avuto modo di dire già in altre recensioni è particolarmente interessante analizzare l’evoluzione dei generi attraverso gli anni perché permette di capire e raccontare la società in cui viviamo. In questo caso il campo di analisi è la fiction civile italiana, aggiornata ai tempi narrativi e alle modalità espressive della serialità in streaming. Tra gli elementi più interessanti c’è quindi l’attenzione alla sensibilità femminile, alla maternità, all’ambivalenza del ruolo della donna all’interno della famiglia mafiosa; ma anche l’assenza dell’altra metà del cielo rappresenta un segno dei tempi. Non abbiamo figure di genere maschile a cui far riferimento: non le troviamo e non sappiamo dove cercarle. Una scelta narrativa che peraltro stona con le dichiarazioni di Giuseppina Pesce che ha criticato, tramite il suo avvocato, la rappresentazione del padre, tutt’altro che violento nei suoi confronti. Nella storia dobbiamo piuttosto cercare la sensibilità e i valori tipicamente maschili (lo sguardo rivolto all’esterno del nucleo familiare, la mobilità, il sacrificio per l’affermazione sociale e quindi per la tutela economica, la costruzione di relazioni verticali) nelle donne, nella PM Anna Colace o, a tratti, proprio in Giuseppina Pesce. Sembra davvero che la rappresentazione di caratteri maschili sia destinata all’estinzione o debba essere relegata in contesti di specializzazione professionale (medici, avvocati, investigatori) o fantastici (fantasy) per poter avere una sua dignità. Dovremmo interrogarci se sulla difficoltà di una rappresentazione maschile adeguata pesi, in particolare in un Paese come il nostro, l’idea che il fallimento della classe dirigente di fatto corrisponda ad un fallimento proprio degli uomini che hanno gestito il potere ininterrottamente per secoli a tutti i livelli (politici, associativi, culturali, etc.).
Tutti i personaggi, anche quelli maschili, appaiono comunque sempre credibili, anche grazie ad una recitazione senza sbavature in cui l’intercalare, l’accento, il termine dialettale rendono, anche linguisticamente, i dialoghi vivaci e mai banali. Tutte le attrici trasmettono quella tensione positiva che nasce dall’essere parte di un progetto di cui si riconosce il valore. E’ piuttosto la storia a prendersi qualche pausa di troppo, procedendo in una direzione piuttosto prevedibile. La sfida che la serie affronta è dar corpo a questa prevedibilità, che peraltro fa parte della vita e come tale va raccontata, anche nei suoi ritorni, nei suoi cedimenti, nelle sua pause, descritte con cura e con i tempi necessari. E’ la prima volta che vedo sullo schermo con questa precisione la rappresentazione dei meccanismi psicologici di persuasione applicati dai clan nei confronti di quanti si sono ribellati. La violenza psicologica è costante, sfiancante, difficilmente sopportabile, specie quando si hanno pochi strumenti culturali e materiali a cui potersi aggrappare. Le donne che lasciano la famiglia nei fatti lasciano tutto perché tutte le loro relazioni si intrecciano con la ‘Ndrangheta e diventare collaboratori di giustizia significa passare per pazzi, venire cancellati dalla vita e dalla memoria di tutti, compresa quella dei propri figli. Qualcosa di difficile da tollerare. E’ infatti proprio il desiderio di riavvicinarsi alla famiglia a spingere, nel nostro racconto come nella realtà, Lea verso Carlo e quindi verso una morte che, con le acquisizioni degli ultimi anni, è appara in tutta la sua spietata crudeltà (Lea è stata torturata e bruciata). Al contempo però è proprio il pensiero dei figli, il desiderio di poter dare loro un futuro diverso a spingere le protagoniste a trovare il coraggio enorme di denunciare le proprie famiglie.
The Good Mothers descrive in modo efficace le condizioni di vita delle protagoniste nella loro quotidianità. Gli eventi ci appaiono come qualcosa di interessante, istruttivo, ma nel complesso piatto, senza emozioni forti. Anche i momenti più drammatici (come la morte di Lea o quella di Concetta) sono narrati in modo indiretto, senza emozionare lo spettatore che peraltro negli ultimi anni è stato letteralmente drogato di emozioni forti e scene sconvolgenti e quindi fatica a riappropriarsi di dimensioni narrative diverse, meno dirette e crude. Spesso il dibattito pubblico ha affrontato il tema del rischio di emulazione suscitato da alcune rappresentazioni seriali, come Gomorra: in questo caso la scelta è di tener ben lontana dallo spettatore ogni forma di esaltazione del contesto sociale in cui avvengono i fatti, così che, anzi, i momenti più significativi finiscono per essere marginalizzati e non vengono raccontati in modo diretto. In modo diretto viene invece raccontata la quotidianità squallida e monotona creata dalla povertà umana e spirituale della ‘Nadrangheta: ne siamo talvolta circondati e sopraffatti, proprio come Denise e come lei abbiamo bisogno di una boccata d’aria, guardando il mare e cercando rifugio nella bellezza della natura.
Una serie di qualità, premiata al festival di Berlino con la prima edizione del Series Award e che merita la nostra attenzione, maggiormente per aspetti di contenuto che narrativi.
TITOLO ORIGINALE: The Good Mothers
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 60 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 6
DISTRIBUZIONE STREAMING: Disney +
GENERE: Drama Crime
CONSIGLIATO: a quanti cercano una serie impegnata, che affronti temi sociali con cura e attenzione.
SCONSIGLIATO: a quanti cercano emozioni, colpi di scena e un racconto con una forte personalità narrativa.
VISIONI PARALLELE: il libro da cui è stata tratta la serie: The Good Mothers: The True Story of the Women Who Took on the World’s Most Powerful Mafia di Alex Perry, pubblicato per William Collins nel 2018 e non ancora tradotto in italiano. Significativa la mancanza di interesse da parte dei nostri editori per l’acquisizione dei diritti del libro: staremo a vedere se la serie Tv funzionerà da rompighiaccio per l’approdo nelle nostre librerie della traduzione del volume. Un testo che si caratterizza per precisione e per la capacità di descrivere mondi che a molti possono sembrare lontani nello spazio e nel tempo, ma che invece sono presenti, anche solo a pochi chilometri da noi, a Milano come in Brianza.
Per quanti volessero è disponibile anche un film prodotto dalla Rai e diretto da Marco Tullio Giordana (I cento passi, La meglio gioventù), Lea (2015).
UN’IMMAGINE: in una bottega di Pagliarelle, il paese dove è stata affidata alle cure della zia, Denise vuol pagare delle caramelle, ma la proprietaria si rifiuta. Lei si adira e va su tutte le furie, pensando sia un gesto di ossequio verso la potente famiglia Cosco di cui fa parte. Invece non è così: “E’ per tua madre” una risposta spiazzante e sorprendente che apre squarci di futuro.