Una femme fatale, ereditiera innamorata, figlia di una star del cinema muto; un uomo che dovrebbe essere morto e sfigurato, che se ne va in giro per le strade di Tijuana; il direttore di un club, ritrovo esclusivo e riservatissimo dell’élite cittadina, che sembra sapere molto di più di quanto non appaia; un criminale che traffica con la droga, protetto da un massiccio autista afroamericano; e infine il detective privato Philip Marlowe a districare le trame di un intreccio segnato da violenza e denaro, ambizione e potere.
Sono questi gli elementi chiave di questo Marlowe diretto da Neil Jordan, celebratissimo regista irlandese, distintosi con il noir Mona Lisa fin dalla metà degli anni ’80, poi premio Oscar per la sceneggiatura de La moglie del soldato e Leone d’Oro per la biografia dell’attivista Michael Collins, quindi autore di un mirabile adattamento di Fine di una storia di Graham Greene.
Il film non nasce da un racconto originale di Chandler, ma da un romanzo scritto nel 2014 da John Banville, The Black-Eyed Blonde, adattato per lo schermo dal premio Oscar William Monahan (The Departed).
La storia è ambientata nella Los Angeles del 1939, ancora lontana dal coinvolgimento nella Seconda Guerra Mondiale: Marlowe riceve l’incarico di ritrovare Nico Peterson, un attrezzista di scena a Hollywood, dato per morto e sepolto, eppure riconosciuto da una delle sue amanti, la ricca ereditiera Clare Cavendish, oltre confine.
La ricerca di Peterson spingerà Marlowe a penetrare i torbidi segreti della famiglia di Claire, la cui madre, Dorothy Quincannon, è stata una bizzosa diva del cinema manipolata dal suo contabile Philip O’Reilly, ora capo di uno studio e presto destinato a diventare ambasciatore in Inghilterra.
Parallelamente cerca di comprendere perchè Peterson sia apparentemente scomparso proprio fuori dal cancello del Corbata Club, un circolo esclusivo che il proprietario Floyd Hanson tiene a mantenere riservatissimo.
Nelle sue indagini, Marlowe finirà per scontrarsi con il l’azzimato gangster Lou Hendricks, che ha un conto in sospeso con Peterson.
Non è l’intreccio quello che conta davvero in un noir, piuttosto serve a introdurre i personaggi, a intersecare i loro percorsi a sovrapporre le possibili piste, lasciandoci nella stessa confusione del detective, che ha il compito di Virgilio nel condurci lungo i cerchi progressivi di questa discesa agli inferi, in cui non c’è nessuno da salvare per davvero.
Curiosamente una storia così profondamente americana, così intimamente losangelina è raccontata da un regista e da un cast quasi interamente europeo, anzi in gran parte decisamente irlandese.
Il miscast di Liam Neeson nei panni del private eye più famoso della storia del cinema è tuttavia troppo smaccato perchè il film possa davvero funzionare: Marlowe è fondamentalmente un perdente, continuamente in balia del destino, un antieroe perfettamente impersonato dall’Eliott Gould del Lungo Addio di Altman: qui sembra sempre sul punto di menare le mani e sfoderare la semi-automatica come negli action su cui Neeson ha costruito l’ultima parte della sua carriera.
Diane Kruger e Jessica Lange invece funzionano nella padre di madre e figlia, vittime, ma fino ad un certo punto, mentre Jack Huston si ritaglia il solito ruolo da villain gaglioffo e Alan Cumming pare non meno fuori fase nei panni del gangster.
Complessivamente l’operazione suona esattamente per quello che è: un falso storico, un calco di un tempo e di un’atmosfera che Hollywood non smette di indagare, ma senza più passione, senza necessità. In cui ci sono molti ingredienti, ma non tutti quelli necessari, così che il piatto alla fine lascia un senso di insoddisfazione.
Jordan da troppi anni si è rifugiato in lavori di puro mestiere e questo Marlowe non sfugge al medesimo destino: intrattenimento onesto, ma niente di più.
Solo per fans del personaggio.