“Hollywood è un posto dove ti pagano mille dollari per un bacio e cinquanta centesimi per la tua anima”
Un cerchio di luce, il lampo di flash, un enorme proiettore che illumina la notte. Al centro dello sguardo desiderante di una folla infinita di uomini, Marilyn Monroe con il celeberrimo vestito bianco sulla grata della metropolitana di New York.
Il senso di Blonde che Andrew Dominik ha portato a cinema dopo un’attesa di oltre dieci anni è già tutto in questa prima immagine iconica.
L’immagine di Marilyn come orizzonte unico del nostro sguardo. Il cinema come forza mitopoietica capace di trasformare l’orfana Norma Jeane Baker nella donna più desiderata del mondo.
Tratto dal romanzo che Joyce Carol Oates le ha dedicato nel 2000, il film di Dominik prodotto dalla Plan B per Netflix, è il tentativo di raccontare l’icona Marilyn decostruendo un pezzo alla volta tutto l’universo in cui era immersa, secondo un punto di vista psicologico, che assume come punti cardinali della sua parabola terrena l’abbandono della madre in tenerissima età e il suicidio a soli trentasei anni.
La storia di Blonde è innanzitutto la storia di una bambina non voluta, tradita da un padre che non l’ha riconosciuta e da una madre che non era in grado di prendersi cura di lei.
L’ingresso del mondo del cinema avviene nel modo più volgare possibile, sul divano di Mr. Z.
I primi ruoli sono all’insegna dello stereotipo della bionda ingenua e superficiale, da cui cercherà di allontanarsi per tutta la sua carriera, il rapporto con Charlie Chaplin jr e Edward G. Robinson Jr. finirà con un primo aborto e con una serie di foto compromettenti, quello con Joe di Maggio con schiaffi e violenze.
Non meno deludenti la relazione con Billy Wilder sui set che l’hanno trasformata in mito e il matrimonio con Arthur Miller, segnato dall’incapacità di avere quel figlio che Marilyn tanto desiderava e dalla necessità, comune a molti scrittori, di nutrirsi della propria vita per alimentare le loro opere.
Tuttavia chi esce davvero a pezzi da Blonde è un’altra icona degli anni ’60, il presidente John Kennedy, ritratto nel modo più greve possibile, steso su letto, nudo con il busto di contenimento per la sua schiena malandata, immagine impietosa della libido del potere.
La storia di Blonde è quella di una donna continuamente tradita dagli uomini della sua vita, usata nel modo più disumano possibile, sfruttata nella sua dimensione sentimentale, sessuale, professionale, costretta ad assumere codeina e barbiturici per lavorare, in ruoli lontani dalla sua sensibilità e dalla sua cultura.
Dominik ci racconta una donna degli anni ’50 posizionando tuttavia il suo film esplicitamente in una dimensione culturale interamente contemporanea: il suo è un atto d’accusa sull’oggettivazione del corpo femminile, sulla forza distruttiva della fama e del successo, sull’annientamento dell’identità privata all’interno di quella pubblica, in questo caso esplicitamente identificate in due nomi diversi, quello anagrafico e quello di scena.
Formidabile ed esplicita è la scena in cui, dopo l’ennesima crisi, Norma evoca l’apparizione di Marilyn di fronte ad uno specchio, ottenendo una trasformazione stupefacente, dalle lacrime al sorriso.
Il film è brutale nel rappresentare gli stupri consumati sui divani dei produttori nella compiacenza di un sistema malato, così come la brutalità di uomini italiani gelosi, violenti e castranti, per cui le donne dovrebbero stare solo in cucina ai fornelli.
Non meno crudo è nel mettere in scena l’insensibilità di registi malevoli e voyeur o la famelicità di una stampa desiderosa di scandali e di immagini fasulle, destinate ad accontentare un desiderio perverso e maschilista.
Il regista elimina così qualsiasi aura al cinema e al mondo culturale e politico di quegli anni. Rifiuta radicalmente ogni nostalgia e si affida interamente ad uno sguardo giudicante e moralista, che con la scusa di sovrapporsi a quello della protagonista, vede il male crescere senza argini, attorno a quella che rimarrà sempre un’anima candida e solitaria.
Nonostante l’interpretazione sensazionale della De Armas, che trova qui il ruolo di una vita e respira, parla e sorride ai flash con la stessa grazia dell’originale e forse anche maggiore, la sua Norma Jeane è una donna costantemente affranta e tradita. Una donna destinata a interpretare fino alla fine dei suoi giorni un copione di disillusione e infelicità.
La fotografia di Chayse Irvin (Hannah) alterna bianco e nero e colore, seguendo un percorso emotivo, piuttosto che simbolico, nel tentativo di ricreare per formato, grana, colore e luce le immagini storiche di Marilyn dentro e fuori dal set, arrivando sino ad integrare il volto della De Armas nei film girati dalla Monroe.
Sul piano narrativo il film è costruito esattamente come il romanzo della Oates che voleva “distillare la vita della Monroe con l’ausilio della sineddoche […] In luogo dei vari amanti, problemi di salute, aborti, tentativi di suicidio, ruoli cinematografici, Blonde ne prende in considerazione soltanto alcuni, simbolici”. In modo molto tradizionale, assistiamo quindi ad una successione ellittica di momenti significanti della vita dell’attrice: rimangono fuori scena quasi tutti gli attori, le attrici e i registi con cui ha lavorato e nulla si dice del suo ultimo film, Gli spostati, scritto per lei da Miller e diretto da Huston, che ha poi assunto un significato profetico del tutto particolare alla luce della sua successiva scomparsa.
Blonde, pur da una prospettiva che vorrebbe essere revisionista e neofemminista, schiaccia Norma Jeane nella dimensione esclusiva della vittima di un mondo di uomini sfruttatori, interessati solo ad avere per sè un pezzo del mito.
Forse gli eventi che il film racconta vanno letti esclusivamente attraverso il prisma del tutto soggettivo della sua protagonista e di quel progressivo allontanamento dalla realtà che la porterà a morire sola, una mattina d’agosto del 1962.
In questo modo Blonde finisce però per travolgere anche tutto quello che Marilyn è stata per il cinema e l’immaginario novecentesco, vincolando il suo ritratto ad una dimensione psicologica che assume il suicidio come una lente attraverso cui leggere a ritroso ogni altro evento.
L’approccio di Dominik sembra piuttosto manicheo, incapace di restituire tutta la complessità di una delle icone più grandi del Novecento. Blonde sembra poco interessato a valorizzare il suo talento e a restituire il valore del suo lavoro sul set, capace di costruire un personaggio che troverà film dopo film e nella disillusione de Gli Spietati di Huston, la sua dimensione più autentica. Il film inchioda invece la sua protagonista ad un ruolo sempre uguale a se stesso, incapace di evolversi, una sorta di cappuccetto rosso che finisce sbranata in un mondo popolato solo da lupi famelici.
Militante.