Nell’America del 1719, tra le Grandi Pianure abitate dagli indigeni e invase dai trapper francesi, un predatore invisibile si aggira furtivo nella natura selvaggia, squartando serpenti, dilaniando orsi bruni e lasciando impronte che nessuno riesce ad interpretare.
Nella tribù dei comanche, la giovane Naru cerca di dimostrare il suo valore come cacciatrice, nonostante per la gerarchia della nazione, dovrebbe occuparsi di altro e lasciare l’attività virile e pericolosa al fratello Taabe, un guerriero eccezionale.
Durante un’escursione con il suo fidatissimo cane Saari, Naru assiste all’arrivo di quello che interpreta come un uccello di fuoco: in realtà si tratta di un nave aliena.
Nel frattempo uno dei giovani cacciatori della tribù è aggredito da un puma: nella spedizione per ucciderlo c’è anche Naru, coinvolta solo per le sue abilità taumaturgiche.
Dando la caccia al puma, Naru si accorge che ci sono impronte di un grande predatore, ma incontrato prima.
Nonostante la sua strategia si riveli corretta è il fratello Taabe a riportare all’accampamento la testa del puma, ma un altro pericolo decisamente più ferale si sta per abbattere sulla tribù dei comanche e sui cacciatori di pelli francesi che pure perlustrano quel territorio.
L’idea di un prequel di Predator, ambientato nell’America delle origini – in quello spazio cinematograficamente abitato da DiCaprio e Hardy in The Revenant – facendone al contempo un manifesto ante litteram di emancipazione femminista, è una scelta che rivitalizza un franchise moribondo, che dopo il capostipite del 1987 aveva allineato solo brutti sequel e un modesto remake.
Il quarantenne Dan Trachtenberg che si è fatto le ossa con le pubblicità, i videogames e gli show su internet, prima di essere lanciato da J.J. Abrams con 10 Cloverfield Lane e di dirigere un episodio di Black Mirror e il pilota della fortunatissima serie The Boys, è qui al suo secondo lungometraggio, ma sembra avere la sicurezza di un veterano.
Il Predator originale era un piccolo gioiello di tensione e paura nella giungla, capace di evocare altri nemici invisibili che ancora turbavano l’America reaganiana, incapace di fare i conti fino in fondo con lo smacco del Vietnam.
La presenza trascinante di Schwarzenegger, in uno dei suoi ruoli più iconici dopo Conan e Terminator, non mascherava il magnifico lavoro di Stan Winston nel disegnare la creatura aliena, occultata fino alla fine dalla sua invisibilità mimetica. Un cast di comprimari brutti sporchi e cattivi – Jesse Ventura, Carl Weathers, Shane Black, Bill Duke – oltre la produzione di uno dei maghi dell’action Joel Silver e alla regia di John McTiernan (Trappola di cristallo, Caccia a Ottobre Rosso, Last Action Hero) allora al suo secondo film, rappresentavano gli ingredienti perfetti per trasformare un piccolo B-movie in un grande successo estivo.
Prey riprende quello spirito avventuroso e riesce a costruire almeno un paio di sequenze di grande impatto visivo, come il duello con l’orso e la caccia nella nebbia, oltre al redde rationem finale, in cui la protagonista ha la meglio dell’alieno, grazie alla sua astuzia e non alla brutalità delle armi.
Interessante il ribaltamento motivo della preda e del predatore: chi davvero è il cacciatore e chi viene cacciato? Quando la protagonista intuirà i rapporti di forza, comprenderà finalmente come poter vincere la sfida.
Amber Midthunder, che viene dalla tribù dei Sioux, è realmente una scoperta e riesce a dare credibilità ad un personaggio probabilmente anacronistico, che tuttavia regala al film una sua inedita dimensione progressista.
Rispetto al film originale, Trachtenberg fa di tutto per preservare lo spirito di genere, all’interno di una confezione curatissima, che privilegia la composizione orizzontale dell’immagine, grazie ad un widescreen particolarmente efficace, all’ambientazione epica e ad un montaggio senza sbavature.
Peccato che poi il film venga rilasciato direttamente su Disney+, vanificando ogni cura da grande schermo. per una distribuzione straight to streaming francamente avvilente.
In un altro tempo e in un altro contesto, un piccolo film così efficace avrebbe potuto trovare la sua strada, costruendosi uno status di culto nel passaparola. Così invece rischia di passare per lo più inosservato, fagocitato dall’offerta bulimica delle piattaforme e dalle scelte ultra-conservative della Disney, che gioca solo sul sicuro.