10 Cloverfield Lane **1/2
L’esordio alla regia di Dan Trachtenberg, noto soprattutto per i suoi podcast e i suoi video pubblicitari, oltre che per il corto Portal: No Escape che ha ricevuto diciassette milioni di visualizzazioni, è nato come un progetto segreto della Bad Robot, intitolato Valencia.
La sceneggiatura originale di Josh Campbell e Matt Stueken, intitolata The Cellar, riscritta da Demian Chazelle, che avrebbe dovuto dirigerla, ha indotto J.J. Abrams a farne il secondo episodio dell’universo Cloverfield.
Il film originario, uscito a sorpresa nel gennaio 2008, come un found-footage girato a New York, in una notte di tregenda, e ritrovato dal Dipartimento della Difesa, era stato uno dei capisaldi del cinema post 11 settembre, perfetto interprete delle ansie e dello spaesamento di chi si trovava improvvisamente braccato e sotto attacco.
Mai la tecnica un po’ furba del found-footage, tradizionalmente usata nei film horror a basso budget, era stata utilizzata con tale maestria e competenza, oltre che con una invidiabile onestà narrativa.
L’esperimento di Abrams, scritto dal geniale Drew Goddard e diretto da Matt Reeves sembrava onestamente non replicabile, tanto nella formula, quanto nel racconto.
In effetti questo 10 Cloverfield Lane nasce come un progetto originale, ma condivide con primo episodio la paranoia dell’attacco e la condizione di survivor tale.
Il film sembra cominciare con un’immagine simile a quella con cui si concludeva Cloverfield: la protagonista Michelle lascia New Orleans dopo aver litigato con il fidanzato Ben. Fuori dalla sua finestra qualcosa sembra essere piombare dal cielo. Ma forse è solo un’impressione. Michelle si avventura in auto nella Louisiana rurale, mentre per radio la raggiungono notizie di blackout nelle principali città americane.
Improvvisamente nella notte viene tamponata da un pick up: la sua auto esce di strada e si ribalta più volte. Quando Michelle si risveglia, si trova in un bunker, con un ginocchio immobilizzato e senza la possibilità di comunicare con l’esterno.
Il bunker è di proprietà di Howard, un uomo minaccioso e corpulento, che dice di aver assistito all’incidente e di averla salvata. Il paese è sotto attacco – non si sa bene se chimico, batteriologico o nucleare – non è possibile uscire allo scoperto, ma nel bunker ci sono risorse sufficienti per loro due e per il terzo ospite Emmett, un giovane che si è introdotto a forza, quando ha compreso la pericolosità della minaccia esterna.
Michelle è diffidente, non crede al racconto di Howard, ma presto, anche grazie alla complicità con Emmett, comincerà a comprendere i confini effettivi dell’incubo in cui è precipitata…
Dire di più potrebbe rovinare la sorpresa di un film, che è costantemente un passo avanti allo spettatore, esattamente come Howard rispetto a Michelle.
Trachtenberg gestisce sapientemente i tempi narrativi, distillando le informazioni nel corso dei 100 minuti del film, in modo da tenere costantemente alta la tensione.
Una tensione che gioca però solo sull’effetto sorpresa, non sulla suspense, secondo la nota distinzione di Hitchcock.
Diventa allora essenziale che i personaggi siano credibili e facilitino l’identificazione: in questo senso Mary Elizabeth Winstead è perfetta nel suggerire i dubbi e la morsa claustrofobica in cui è costretta. In senso prettamente spielberghiano, si tratta della classico personaggio comune, coinvolto in una situazione fuori dall’ordinario.
John Goodman è l’inflessibile e militaresco Howard, le cui vere motivazioni rimangono sempre nell’ombra. Il vero mostro è dentro il bunker oppure è all’esterno? Su questo interrogativo il film gioca tutta la sua ambiguità.
Assai più sacrificato John Gallagher, Jr. nei panni di Emmett, il cui ruolo non ha grande spessore ed è solo funzionale a dare una sponda alle ansie di Michelle.
La classica divisione in tre atti, ci consegna un finale certamente efficace, anche se non completamente inatteso, proprio per il richiamo, voluto da Abrams, al mondo di Cloverfield.
L’impatto narrativo è assai meno dirompente rispetto al primo capitolo e la forza mitopoietica dell’originale rimane assolutamente irraggiungibile.
10 Cloverfield Lane è un onesto thriller, che sfrutta alla perfezione la solidità di una sceneggiatura piuttosto tradizionale e di genere, capace di una pregevole concentrazione aristotelica.
Rimangono invece molto sullo sfondo la metafora dell’assedio e quella della civiltà chiusa in se stessa, diffidente di tutto quello che è fuori dai propri confini.
Un lavoro di onesto artigianato.
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