Tratto da un romanzo di Ermanno Rea, il nuovo film di Mario Martone è un altro ritorno a Napoli, segnato da un passato che continua a pesare come un macigno nelle vite dei suoi personaggi.
Il protagonista è Felice Lasco: scappato in Libano nei primi anni ’80, si è convertito all’islam, ha fatto fortuna in Sudafrica e poi al Cairo, dove ha una moglie e un’attività di costruzioni.
Il ritorno al Rione Sanità della sua infanzia è un’immersione nei ricordi e nei fantasmi: la madre sarta, ormai molto anziana, è finita in un basso, non si sa bene perchè, ma è vicina alla fine. Un amico di famiglia, di cui Felice non si ricorda, lo accoglie calorosamente. Un giovane prete anti-camorra, Don Luigi, cerca di spiegargli le sue battaglie quotidiane, per dare un futuro ai giovani che non sia al servizio della criminalità.
Su tutti si allunga l’ombra di Oreste Spasiano, ‘O Malommo, lo spietato boss del quartiere, a cui Felice è legato per la vita, da un omicidio commesso da ragazzi, che è l’origine della sua fuga.
Nostalgia oscilla pericolosamente tra presente e passato, senza mai davvero riuscire a trovare le note giuste per raccontare la sua storia. I movimenti di Felice, le risposte minacciose di Oreste, i personaggi di contorno, la madre, l’amico, i ragazzi, il prete: tutto sembra episodico, slegato, mosso dalle parole di uno scrittore, più che dalle necessità della realtà.
Perchè Oreste teme così tanto Felice? E perchè quest’ultimo dopo essersi rifatto una vita lontano, trasloca per mesi a Napoli, senza un vero motivo e insiste a rimanere nello stesso quartiere, nonostante le minacce ricevute? Bastano un paio di telefonate alla moglie lontana a risolvere tutto?
Il meccanismo drammatico che arriva inesorabilmente a chiudere i sospesi, è troppo fragile, lasciato sempre a quello che i personaggi dicono e non a quello che in effetti dovrebbero fare.
Martone poi costringe Favino ad un terribile accento arabo, elidendo qualsiasi cadenza napoletana, con una scelta francamente improponibile e irrealistica per un uomo nato nei quartieri. Questo mette in grande difficoltà il suo interprete, che parla una lingua che non esiste, del tutto impersonale e lo fa ovviamente senza alcuna naturalezza.
Non meno sbagliata la scelta di Tommaso Ragno nel ruolo di Oreste, anche a lui a disagio con la lingua dei quartieri e lontano per fisicità e sguardo, dall’immagine di un boss.
L’unico realmente in parte è il bravissimo Francesco Di Leva, nel ruolo di Don Luigi, anche perchè il suo è davvero l’unico ruolo scritto con precisione e generosità.
Il film è animato da forze centrifughe che segnano da un lato la riconquista identitaria del protagonista e dall’altro la sua estraneità al contesto attuale del suo quartiere d’origine: in questo contrasto il film dovrebbe trovare la sua ragion d’essere, tuttavia Martone non ci riesce mai e tutto rimane come sospeso, fino al precipitare degli eventi.
Questa idea poi che Napoli sia sempre una città da cui fuggire o a cui ritornare, schiacciata costantemente sul passato è diventata ormai stucchevole. Qui peraltro aggravata da una sottotrama di vendetta che non è mai davvero credibile.
La stessa impaginazione con il presente in formato panoramico e i flashback del passato in formato stretto con dominati calde, come nelle vecchie foto ingiallite di un tempo, è un’espediente talmente abusato nel cinema italiano, che bisognerebbe evitare di ripetere ancora.
Nostalgia film resta un tentativo sterile, con troppe fragilità. Non bastano le buone intenzioni e una certa idea di Napoli: quello che manca qui è il cinema, la sua necessità, la sua urgenza.