Cannes 2022. Frère et sœur – Brother and sister

Frère et sœur – Brother and sister **

La carriera ormai trentennale di Arnaud Depleschin, il regista di Roubaix, è sempre stata caratterizzata da exploit felicissimi, di miracolo equilibrio drammatico e sentimentale, e cadute artificiose ne romanzesco più dimenticabile.

Dopo due film sublimi come Roubaix, une lumière e Tromperie – Inganno, probabilmente il miglior adattamento cinematografico di un libro di Roth, il nuovo Frère et sœur è invece un melò faticoso, troppo scritto e pieno di personaggi da romanzo, lontanissimi da ogni verità.

Il film si apre con la morte del figlio di Louis, uno scrittore di successo, che nei suoi romanzi ha raccontato soprattutto la sua famiglia. La sorella Alice, attrice di teatro, viene allontanata bruscamente con il compagno, quando accorre per portargli le sue condoglianze.

Tra i due scorre un odio inesorabile e irrisolvibile, che neppure il terzo fratello, quello più piccolo riesce ad arginare, nonostante la sua mediazione.

Passano gli anni e i rapporti restano inesistenti, ma le cose si fanno più complicate quando i genitori Abel e Marie-Louise hanno un incredibile incidente d’auto, travolti da un autotreno, mentre stavano prestando soccorso ad una giovane donna, vittima di un’altra uscita di strada.

I due fratelli si alternano in ospedale, quando c’è l’uno l’altra è in teatro a recitare Joyce, mentre pian piano sembrano cadere a pezzi: lei ha continue crisi di pianto e si rivolge ad un vecchio amico di famiglia e spasimante deluso per avere qualche aiuto con gli psicofarmaci; lui, lontano dalla moglie che è rimasta nella baita isolata dove si sono rifugiati, compra oppio da fumare, è sempre ubriaco e fa scenate in pubblico, persino all’incolpevole nipote.

Il finale sembra scritto e ve lo risparmiamo.

Tuttavia è la sensazione che questo Frère et sœur lascia costantemente, ovvero di essere un film costruito troppo programmaticamente, con personaggi che sembrano usciti dal manuale di un pessimo sceneggiatore piuttosto che dalla vita vera. 

Lontano da Roubaix, dalle sue ossessioni, dal suo alter ego Paul Dédalus e dall’autenticità della sua ispirazione Desplechin finisce per impaginare un racconto a cui non si riesce mai a credere. Perchè i due fratelli provano tanto odio l’uno per l’altra? C’entra il successo, probabilmente. “Un giorno l’odio mi ha invasa completamente” così lo racconta Alice. Ma il non detto non viene mai esplicitato e allora tutti continuano a parlare dei sentimenti dei due, ma nel film non c’è nulla che li giustifichi, se non appunto quest’improvvisa iniezione di veleno, che tuttavia è difficile da immaginare, persino quando i due si trovano a fare i conti con il ricovero dei genitori.

Lo stesso accade con gli altri personaggi: che funzione ha infatti Fidèle, il terzo fratello, se non una puramente di servizio? E qual è quella del marito di Alice, Simon, protagonista della prima scena, che poi scompare quasi del tutto? E perchè Faunia, la moglie di Louis, nel mezzo di questa profonda crisi familiarie, decide di rimanere nel suo eremo in mezzo alla natura, mentre il marito piomba in uno sconforto rabbioso e autodistruttivo?

Il film suscita più interrogativi che risposte, ma non perchè voglia essere volutamente ellittico, quanto piuttosto perchè è scritto in modo sciatto e superficiale, dallo stesso Desplechin con al sua collaboratrice storica Julie Peyr.

Da un regista capace di raccontare i sentimenti, lo spleen, l’angoscia amorosa con così grande intelligenza e sensibilità, è lecito attendere qualcosa di molto diverso da questo uggioso Frère et sœur, che peraltro asseconda vezzi e manie dell’ultima Marion Cotillard, in un personaggio che sembra speculare a quello interpretato in Annette.

Melvil Poupaud recita con il pilota automatico il cliché dell’artista maledetto, piegato dalla vita, che trova riscatto nella sua arte, tutto eccessi e autenticità.

Il resto come detto è poca cosa, persino la bravissima Goshifteh Farahani, qui emarginata in un ruolo veramente infelice, in cui la metà delle scene sono al telefono.

Cosa resta? Solo una vuota manifestazione del talento di Desplechin per raccontare dolori e rimorsi.

Troppo poco.

 

 

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