Han Geu-ru è un ragazzo di 20 anni, affetto da disturbi legati allo spettro autistico. Conduce tuttavia una vita tranquilla, soprattutto grazie all’amore incondizionato del padre, Jeong-u, con cui lavora nell’azienda di famiglia, la Move to Heaven. I due svuotano e sanificano le abitazioni delle persone decedute: lo fanno con cura e rispetto per il defunto, in questo distinguendosi dai concorrenti, ma più in generale dalla cultura diffusa nelle società materialistiche. Geu-ru e suo padre non si limitano a liberare una stanza, ma a tutti gli effetti compiono un vero e proprio rito, supportato da rispetto ed empatia per coloro che sono venuti a mancare. Tanto più che questo lavoro li porta spesso a contatto con persone sole, abbandonate, malate, morte in circostanze drammatiche. Il loro obiettivo non è solo pulire, ma anche medicare e per farlo cercano di ricostruire la storia del defunto, quello che ai loro occhi appare come un ultimo messaggio lasciato incompiuto e che si sforzano di decifrare e consegnare al destinatario. Raccolgono gli oggetti cari al defunto in una scatola gialla che poi consegnano ai familiari, anche quando sono disinteressati o, peggio, ostili. Un giorno però questa vita fatta di dedizione al lavoro e schemi ripetuti senza sbavature finisce improvvisamente: Jeong-u ha un attacco di cuore e il figlio si trova solo. Almeno fino a quando non si fa vivo lo zio paterno, Cho Sang-gu (Lee Jehoon), appena uscito di prigione. Un rapporto inizialmente tutt’altro che semplice, data la diversità di carattere e abitudini, ma che finisce per portare a entrambi frutti inaspettati e sorprendenti.
Move to Heaven si presenta come una storia originale, che dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la vitalità del mondo culturale coreano che riesce a proporre non solo prodotti di qualità tecnica, ma anche contenuti innovativi. La trama è basata sull’esperienza di uno dei primi ‘trauma cleaners’, Kim Sae-Byul, che l’ha raccontata in un libro, Things Left Behind, e che ha collaborato direttamente alla sceneggiatura della serie. L’attività dei ‘trauma cleaners’ offre spunti interessanti dal punto di vista filosofico, escatologico, ma soprattutto sociologico, descrivendo una solitudine e una marginalità che, specie nelle grandi città, porta con sé fenomeni di esclusione sociale non dissimili da quelli raccontati in Squid Game. E’ questo uno degli aspetti più riusciti della serie che ci presenta, in modo volutamente semplice e ironico, ma efficace, una società dura, competitiva, in cui il denaro regola e rovina molte vite e in cui i rapporti umani finiscono per essere messi in secondo piano. Da un certo punto di vista siamo di fronte a una narrazione dickensiana, senza però l’amarezza e il tono cupo che prevale nella scrittura di Dickens negli ultimi decenni della sua ricca produzione.
Con un tocco scanzonato che stempera momenti drammatici, senza mai sminuirne la portata, Move to Heaven descrive passo dopo passo lo sviluppo del rapporto tra Geu-ru (interpretato da un ottimo Tang Jun-sang) e lo zio Cho (Lee Je-hoon). Geu-ru ha ben presente l’insegnamento del padre: se qualcuno dice cose brutte, ma fa cose buone e si prende cura di te, è una brava persona. Con questa convinzione, il giovane riesce a superare l’iniziale difficoltà nella relazione con lo zio Cho: un rapporto da subito in salita, tra un uomo che vive con poche regole e tanta improvvisazione e un ragazzo abituato a muoversi seguendo schemi ben precisi. Geu-ru è impietoso nel descrivere i difetti dello zio: disordinato, sporco, poco curato, ma questo non gli impedisce di giudicarlo comunque un uomo buono. E’ la loro crescente intimità il cuore della parte drammatica della serie, in particolare l’evoluzione dell’atteggiamento di Cho, che acquisisce nel corso della vicenda un nuovo senso di responsabilità e un profondo affetto per il nipote. E’ il suo arco di trasformazione, reso con efficacia dall’interpretazione di Lee Je-hoon, a sorreggere la vicenda, l’unico arco realmente dinamico e approfondito, tramite i ricordi di un’infanzia traumatica e del dramma legato ai combattimenti clandestini che lo hanno visto ridurre in coma il suo allievo e amico Kim Su-cheol.
Accanto a questo sviluppo orizzontale ci sono poi le diverse storie delle persone decedute che Move to Heaven accompagna nell’ultimo trasloco. Ogni puntata presenta quindi un diverso protagonista: sono come detto emarginati, in genere con un rapporto conflittuale con la famiglia che, in alcuni casi, non hanno mai nemmeno conosciuto. Ci vengono presentati tutti come vittime, senza sfumature o incertezze: la loro umanità è stata tradita e slabbrata dalla società, dalla famiglia o dal datore di lavoro. E’ un tratto ideale che supera ogni intento di rappresentazione realistica e che potrebbe risultare troppo semplicistico all’occhio dello spettatore occidentale, abituato a rappresentazioni più ricche di sfumature, soprattutto dal punto di vista morale. L’unico personaggio complesso è Cho, riconducibile per diversi tratti nell’alveo dell’antieroe, anche se il suo comportamento finisce, nell’arco dei dieci episodi della serie, per superare interpretazioni anti o controsociali. L’aspetto più emblematico sono i combattimenti clandestini che nascono da una mera esigenza economica e che il protagonista, dopo l’incontro che ha ridotto l’amico Kim Su-cheol in coma, non vorrebbe più disputare.
Conservare i beni più importanti del defunto in una bella scatola gialla di cartone è stata una scelta narrativa interessante, che ha permesso di toccare con mano le vite dei protagonisti delle singole storie. In una società consumistica, in cui le abitazioni dei defunti si presentano il più delle volte piene di oggetti, a volte al limite dell’accumulo seriale, le cose veramente importanti, quelle che vale la pena conservare, sono davvero poche e in genere riguardano ricordi e non traguardi professionali
Dal punto di vista tecnico la serie conferma il livello eccellente delle produzioni originali Netflix. Il colosso OTT1 ha da tempo investito ingenti capitali nelle produzioni coreane, contaminando la struttura narrativa lunga del K-drama con esigenze distributive occidentali: prodotti più compatti, con meno puntate, in grado di essere visti anche in modalità bindge. Ottime le interpretazioni dei protagonisti, tra cui spicca quella da bad guy di Lee Je-hoon, molto apprezzato anche nella recente serie coreana Taxi Driver (2021). Alcuni riferimenti all’amore di Geu-ru per gli animali marini ci hanno ricordato un’altra serie Netflix con protagonista un ragazzo autistico, Atypical, ma il riferimento non lascia la sensazione di un clone, ma piuttosto di un rimando, di una citazione. Il regista Kim Sung-ho ha girato tutti gli episodi con un tocco estetico personale: le dissolvenze conferiscono un sapore di eleganza al tempo che fugge, mentre le numerose inquadrature a piombo, nelle stanze dei defunti, racchiudono il senso di una vita conclusa nello spazio angusto di quattro mura, spesso sporche e piene di solitudine.
La colonna sonora principale spicca per uno stile che miscela pop e musica classica, ascoltata da Geu-ru all’inizio di ogni trasloco/pulizia.
Move to Heaven è stata accolta in maniera positiva da pubblico e critica, conquistando tra l’altro ben tre premi Aca (Busan’s Asia Contents Award), come: miglior attore (Lee Je-hoon), scrittura (Yoon Ji Ryun) e serie più creativa. Il finale aperto e il successo lasciano quindi presagire la probabilità di una seconda stagione, su cui però al momento non ci sono ancora indicazioni ufficiali.
Titolo originale: Move to Heaven
Durata media episodio: 55 minuti
Numero degli episodi: 10
Distribuzione streaming: Netflix
Genere: Drama
Consigliato: a quanti amano gli spaccati di vita che alternano commedia e dramma e che sono alla ricerca di una serie confortevole per lo spirito.
Sconsigliato: a quanti non amano le storie buoniste che fanno commuovere e che non seguono con piacere le serie sottotitolate.
Visioni parallele:
Atypical, una produzione Netflix che racconta le vicende di Sam Gardner, un adolescente autistico, e della sua famiglia. Con tono ironico e leggero, un piccolo straordinario abbecedario della resilienza, in tutte le sue molteplici declinazioni, con una grande prova di Jennifer Jason Leigh, che interpreta Elsa, la madre di Sam. Quattro stagioni che offrono tanti spunti per cambiare la nostra prospettiva sul mondo che ci circonda, sempre con il sorriso sulle labbra.
Departures, un film giapponese del 2008 che racconta la storia di un violoncellista che, dopo lo scioglimento della sua orchestra, trova lavoro nella preparazione dei defunti per il loro ultimo viaggio. Nella cultura giapponese la tanoestetica è non solo una vera e propria arte, ma anche un modo di rispettare la memoria dei defunti. Premio Oscar come miglior film straniero per questa storia delicata e poetica.
Un’immagine: ad un certo punto sullo schermo compaiono le immagini dei notiziari relative al crollo del centro commerciale Sampoong avvenuto a Seul il 29 Giugno del 1995. L’implosione dell’edificio, alto cinque piani, dovuta a un cedimento strutturale, rappresentò un evento catastrofico, paragonabile per impatto drammatico sulla società coreana solo alla Guerra di Corea. La cronaca entra nella narrazione, mischiando realtà e finizione, dissotterrando negli spettatori che hanno vissuto direttamente quegli eventi emozioni sopite e ricordi dolorosi. Una scelta diffusa che rende le narrazioni seriali un luogo in cui la realtà e la finzione si trovano inestricabilmente intrecciate.
1 OTT: Over The Top. E’ la modalità con cui si indicano i maggiori player (Netflix, Disney+, Amazon Prime Video, etc.) che distribuiscono contenuti e servizi tramite uno streaming Internet. I contenuti offerti viaggiano in maniera indistinta nel flusso dei dati Internet: il cliente per fruirne deve solo installare l’applicazione del provider OTT.