“La vita non mi piace più, la realtà è scadente,
ecco perché voglio fare cinema,
anche se ho visto tre, quattro film”
Commovente e sentito ritorno a Napoli, il nono lungometraggio di Paolo Sorrentino – scritto e diretto per Netflix, sulle orme della sua biografia – è un viaggio nella città degli anni ’80, quella segnata a fuoco dal riscatto sportivo e dal dolore di una tragedia personale, che finora era sempre rimasta lontana dal mondo cinematografico del regista.
Il protagonista è Fabietto Schisa, l’ultimo dei tre figli di Saverio e Maria, lui bancario e lei casalinga, al centro di una famiglia allargata meravigliosamente surreale, tra matrone sboccate, che mangiano mozzarelle vestite di pelliccia, zie rese pazze dall’impossibilità di avere figli, avvocati depressi che hanno perso le ultime diciotto cause e parenti acquisiti di improbabile comicità.
Non meno travolgente il gruppo dei vicini di casa degli Schisa al Vomero: una baronessa vedova, che trova tutto terribilmente volgare, una famiglia di trentini, a cui la mamma di Fabietto combina uno scherzo formidabile, il figlio del portiere, che lucida la sua 127 e sembra vivere in un mondo tutto suo.
Il film comincia con un incredibile piano sequenza aereo, che dal Golfo di Napoli finisce per inquadrare un’auto antica, su cui viaggia uno sconcio e luciferino San Gennaro. È stata la mano di Dio si immerge poi nell’allegria e nelle tensioni degli Schisa, fra tradimenti, infedeltà e inesorabili sfottò familiari, con una precisione che solo il ricordo riesce a restituire con una tale forza immaginifica.
In città si attende l’arrivo di Maradona che è stato acquistato dal Barcellona, ma c’è anche Fellini che sta facendo dei provini e il fratello di Fabio, che ha velleità d’attore, si presenta ad un casting, in cui ogni volto è un’universo a se stante, mutuato dalle maschere del regista riminese. Il protagonista invece si imbatte in Galleria nelle riprese del nuovo film di Antonio Capuano e ne rimane affascinato e rapito.
Dopo l’incidente che lo renderà orfano, Fabietto sarà costretto a diventare Fabio molto velocemente: il calcio, la musica nelle cuffie, le piccole scaramucce familiari, la leggerezza spensierata della vita di prima lasceranno il posto a nuove ansie sul proprio futuro, ad una serie di stimoli contraddittori, in un ragazzo silenzioso e senza amici, che sembra assorbire, come una spugna, le vite degli altri.
Mentre il fratello e la sua ragazza se ne andranno a Stromboli in vacanza, Fabio ritorna presto a Napoli e incontra finalmente il regista Antonio Capuano nel corso di una notte surreale, in cui tutte le sue velleità saranno messe alla prova. Il cinema è davvero una strada possibile? E per raccontare cosa? La realtà si è rivelata deludente, ma il mondo che Fabio vuole costruire, cosa potrà contenere?
Dopo qualche incertezza e qualche scelta non particolarmente felice, a distanza di vent’anni dal suo esordio con L’uomo in più, Sorrentino ha trovato la giusta distanza per un racconto così intimo, in cui l’artificio narrativo si mescola al ricordo personale.
E’ stata la mano di Dio è uno dei suoi lavori maggiori, un viaggio sentimentale, tra memoria e immaginazione, che diverte sino alle lacrime nella prima parte e che poi commuove davvero nella seconda, affidata ai turbamenti di un ragazzo, che non riesce a piangere e che sembra aver chiuso nel suo mondo interiore tutto il dolore e la sofferenza di un addio così brusco e inaspettato.
Il romanzo di formazione di Fabietto Schisa diventa così un modo per fare i conti con la propria storia personale, la propria famiglia, le sue tentazioni e le sue delusioni: ma non è il realismo che interessa il regista, piuttosto indagare le radici del suo immaginario.
Il mondo creato da Sorrentino è abitato da caratteristi formidabili, ciascuno meritevole di una storia a sè e portatore di una filosofia originale.
La capacità del regista de La grande bellezza di osservare e riprodurre il lato grottesco e paradossale della vita è intatto e lucidissimo, questa volta addolcito dall’amore profondo verso i personaggi che racconta e per il microcosmo napoletano, che ha ricostruito con una tenerezza impareggiabile, che non diventa mai autoassolutoria.
E che infatti nel dialogo memorabile ed elettrizzante con il regista Capuano, sembra voler fare i conti anche con se stesso, con l’abbandono subito, con le proprie scelte, con la natura della propria ispirazione, che forse risiede proprio in un’immagine pietosamente negata.
“Non ti disunire, resta unico, non andare a Roma” gli intima Capuano, in modo criptico: ma poi Fabietto partirà davvero, per ritornare solo molti anni dopo.
Dal punto di vista formale, Sorrentino ha scelto una messa in scena più lineare, diremmo essenziale, al servizio della sua storia, rispetto alle iperboli che di solito contraddistinguono la sua regia.
In un film che Daria D’Antonio ha immerso nel blu ineguagliabile del mare e nella luce calda e rassicurante di una Napoli piccolo borghese, la storia si muove tra contrabbandieri e impiegati, traffichini e nobili decaduti. Gli attori scelti da Sorrentino sono un omaggio evidente anche alle sue radici cinematografiche e biografiche, da Enzo Decaro de La Smorfia a Teresa Saponangelo, da una generosa Luisa Ranieri a Massimiliano Gallo, fino a Toni Servillo, che interpreta un padre imperfetto e solare, protettivo e pieno di debolezze.
La colonna sonora di Lele Marchitelli è curiosamente molto discreta e la musica, di solito così centrale nei film di Sorrentino, esplode significativamente solo nel finale, in un film costruito invece tutto sui rumori: Fabietto attraversa tutto il film con un walkman appeso alla cintura e con le cuffie appoggiate sulle spalle, ma solo alla fine ascolteremo anche noi con lui, l’unica canzone possibile, scritta da Pino Daniele, per chi si allontana dalla città di Eduardo, portandola sempre con sé.
“Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male“.