L’adattamento del romanzo scritto da Thomas Savage nel 1967, da cui anche Annie Proulx ha tratto ispirazione per il suo Brokeback Mountain, segna il ritorno al cinema di Jane Campion dopo il mirabile Bright Star del 2009 e le due stagioni di Top of the Lake.
Siamo in Montana nel 1925: i due fratelli Phil e George gestiscono la mandria più numerosa della zona e vivono senza donne, nella grande casa familiare.
I due non potrebbero essere più diversi: Phil, laureato a Yale, vive nel mito di Bronco Henry, l’uomo che gli ha insegnato a cavalcare molti anni prima. Smilzo, burbero e arrogante ha scelto di rinunciare ad una professione borghese per vivere come un qualsiasi mandriano, col cappello sempre in testa, i pantaloni di cuoio e gli stivali con gli speroni.
George invece, pingue e silenzioso, è la sua ombra: l’università non l’ha mai finita, non contraddice il fratello e modera i suoi eccessi, risolvendo i problemi che crea con la sua sfrontatezza.
Quando i due fratelli e i loro mandriani spostano l’enorme mandria verso Beech, si fermano al Mulino Rosso, una locanda gestita dalla vedova Rose, con il figlio Pete.
George se ne innamora e la sposa, rompendo un patto non scritto con Phil, che vive la felicità del fratello come un tradimento personale. La sua ostilità verso la rispettabilità borghese non è meno forte di quella verso Rose e sembra riversarsi anche su Peter, ma poi le cose cambiano radicalmente e Phil ne diventa una sorta di mentore, insegnandogli a cavalcare, come Bronco Henry aveva fatto con lui, e a lavorare le pelli, per formarne corde e lazi, impossibili da sciogliere.
Il film si muove in una strana dimensione di continua tensione, in cui l’ostilità di Phil verso le buone maniere, prim’ancora che verso la cognata, acquista a poco a poco un significato assai diverso.
Le debolezze di Rose diventano l’arma che Phil usa per torturare la sua famiglia: ma la reazione di Rose e Peter sarà molto diversa. Se la donna infatti si rifugia nell’alcool, che anestetizza i suoi sentimenti di inadeguatezza, Peter rivolge invece verso l’esterno i suoi tormenti, trasformandoli in una vendetta tanto feroce, quanto silenziosa.
Si tratta del primo film della Campion con un protagonista maschile, eppure lo scarto non si avverte. Ci sono la stessa poetica della crudeltà e la stessa sinuosa eleganza nel mostrarla.
Girato magnificamente in Nuova Zelanda, con la consueta capacità di far interagire paesaggio e personaggi, come se l’uno richiamasse le asprezze degli altri, Il potere del cane è un western atipico, in cui tutti gli elementi classici si combinano in modi inattesi. Non si spara un colpo e non ci sono pistole, il ranch non va protetto e l’unico straniero è una donna indifesa, che attira il risentimenti di un uomo che sembra aver represso e nascosto sotto una coltre di polvere e cuoio la sua vera natura.
Ci sono anche gli indiani, ma si limitano a scambiare pelli con guanti, provocando l’ira di Phil, che gli sarà fatale.
Il suo è il vero personaggio tragico del racconto di Savage: vive fuori del suo tempo e dalla sua Storia, inesorabilmente destinato alla sconfitta, perchè incapace di accettare le convenzioni di un mondo nuovo, ma dai valori troppo antichi, per la sua intelligenza.
Anche questa volta la Campion si sofferma sulla costruzione identitaria dei suoi personaggi, sui loro desideri repressi e insoddisfatti, sulle regole sociali che li imbrigliano e li portano ad un’infelicità, che assume una dimensione esistenziale e irriducibile, se non con il sacrificio.
Peccato che, rispetto all’adattamento di Ang Lee del romanzo della Proulx, Il potere del cane arrivi un po’ in ritardo e si fermi un attimo prima di rendere esplicite quelle tensioni sessuali, che scorrono troppo sfumate e sotto traccia.
Il risultato è trattenuto, formalmente sontuoso e visivamente strabiliante, ma un po’ freddo nella sua dimensione melò, mentre alla fine è la vendetta a trionfare sottilmente, assieme ad uno spirito antisociale e sociopatico che si nasconde dietro lineamenti effeminati e una fragilità solo di facciata.
Perfido.
Ang Lee del romanzo della Proulx?
Il teatro, non come il cinema, ci porta artificialmente nel regno della miseria altrui e ci ricompensa con dolci lacrime e una lussuosa spinta di coraggio ed esperienza per la sofferenza momentanea