Dopo il passo falso in trasferta spagnola di Tutti lo sanno, che aveva aperto Cannes nel 2018, il due volte Premio Oscar Asghar Farhadi torna a lavorare in Iran e il suo nuovo film ricomincia immediatamente a parlare il linguaggio adulto del suo cinema, fatto di complessità morale, di scelte etiche, di incomprensioni culturali.
Lo diciamo subito: Un eroe non è forse altrettanto incisivo e implacabile, come i suoi capolavori Una separazione, Il cliente o lo stesso Il passato, ma è costruito con la stessa sensibilità psicologica, la stessa abilità drammaturgica, la stessa intelligenza sociologica.
Il protagonista è Rahim, in carcere per un debito contratto con uno strozzino, necessario per avviare la sua attività. Quando il socio lo abbandona improvvisamente, il padre della sua ex moglie, Braham, è costretto a ripagare la somma, come garante.
Nel frattempo la nuova compagna di Rahim trova in strada una borsa piena di monete d’oro: durante un permesso, Rahim le fa valutare da un orafo e le offre a Braham come parziale risarcimento del suo debito, che gli eviti di ritornare in galera.
L’uomo però rifiuta, vuole la somma intera e pretende che la famiglia di Rahim garantisca per la differenza.
Non potendo così risolvere i suoi problemi economici, in un impeto di generosità, Rahim decide allora di affiggere dei cartelli in strada, per restituire le monete al legittimo proprietario, indicando di contattarlo al numero di telefono del carcere.
Effettivamente una donna si fa viva, risponde alle domande sulla borsa e sul suo contenuto e va dalla sorella di Rahim in taxi per recuperarla, spiegando che sono i risparmi di una vita e che neppure il marito, violento e abusivo, sa della loro esistenza.
Quando in carcere vengono a sapere del gesto di Rahim, attraverso giornali e social l’uomo diventa un piccolo eroe di quartiere, ottiene una benemerenza pubblica e un’associazione che si occupa di detenuti si offre di fare una raccolta per aiutarlo a pagare il suo debito.
Braham tuttavia è riluttante, risentito e non riesce a credere che il suo debitore venga dipinto con toni così positivi.
Nel frattempo l’associazione trova a Rahim un posto in un ufficio pubblico, ma lì uno dei funzionari, anche sotto il peso dell’opinione pubblica, decide di verificare scrupolosamente la storia, facendo venire a galla piccole bugie, incongruenze, lati nascosti.
Il film di Farhadi è un nuovo dramma della verità e dell’inganno, in un Iran in cui si va in prigione per i debiti e in cui la pena di morte non è solo uno spettro lontano.
Il suo protagonista, Rahim, è un vinto, uno sconfitto dalla vita, che cerca silenziosamente di rimettersi in piedi, di trovare una strada.
Come spesso accade nei film del Maestro iraniano, il peso del passato è una catena da cui non ci si riesce a liberare.
Non sapremo mai chi ha inviato all’associazione e al funzionario pubblico dei messaggi che lo screditano. E’ stato il suo creditore? La famiglia della sua nuova compagna? Uno dei carcerati che sembra saperne molto? O la donna che ha recuperato le monete e che è poi sparita nel nulla?
Fa’ la cosa giusta, dicono.
Vale ancora, ma non basta. Oggi occorre anche saperla raccontare pubblicamente, gestendo invidie e gelosie altrui, oltre al peso delle reazioni social: una pubblica piazza sempre con il dito puntato.
Non siamo dentro una favola a lieto fine, le cose apparentemente semplici sono invece molto più complicate, e ciascuno agisce per motivi che rimangono sovente oscuri, irraggiungibili.
E così ogni piccola bugia innocua diventa una menzogna, che definisce il carattere altrui una volta per tutte. E la tutela affannosa della propria reputazione fa gioco su ogni buonsenso.
Un eroe è un film che si muove attorno ai soldi, al denaro, ma è soprattutto un lavoro che parla di onore familiare, dignità personale, rispetto della parola data.
A Braham quello che sembra importare di più non sono i soldi che ha pagato allo strozzino di Rahim, ma il fatto che l’uomo abbia sprecato la dote della figlia, sposata e poi abbandonata.
Come sempre nel cinema di Farhadi, il non detto, le forze che rimangono sotterranee, sono quelle più forti e spesso derivano da tradizioni culturali, che pensiamo rimosse e superate.
Così il semplice gesto morale di Rahim viene prima ingigantito, poi travolto dal discredito, trascinando l’uomo in un meccanismo più grande di lui, che non riesce a gestire e che non risparmia neppure suo figlio balbuziente, prima usato poi infine protetto, da chi intende speculare sulla sua tenerezza, per proteggersi.
Farhadi ritrova in questo film l’implacabilità dei suoi copioni migliori, la catena inesorabile degli eventi, che si muovono come spinti da una forza sotterranea, spesso incomprensibile.
Eppure, nonostante sia uno scrittore sopraffino, capace di articolare strutture drammatiche costruite in modo implacabile, il regista iraniano non è meno efficace nella messa in scena, nella direzione dei suoi attori, nella capacità di far emergere attraverso le immagini le derive di senso e i desideri inespressi dei suoi personaggi.
La sua regia è raffinata, essenziale, costruita spesso in modo da valorizzare dettagli, sguardi, piccoli gesti.
Nel film Rahim cerca un modo, una strada, ma finisce sotto scacco, incapace di trovare una soluzione per uscire da un labirinto che lo riconduce infine là dove l’avevamo incontrato all’inizio.
Dopo le svisate spagnole, Farhadi conferma le sue straordinarie qualità di scrittore, la forza etica del suo cinema, la complessità del suo sguardo, l’umanità dolente su cui indaga: tutti elementi che riescono a trasformare un racconto complesso, che investe molti livelli diversi, in una storia limpida, cristallina, capace di parlare a tutti.
Da non perdere.