Cherry – Innocenza perduta

Cherry – Innocenza perduta *1/2

Dopo aver debuttato con un insulso remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood, seguito da una commedia altrettanto dimenticabile come Tu, io e Dupree, inframmezzate da tanta gavetta televisiva, i fratelli Joe e Anthony Russo si sono riciclati nel Marvel Cinematic Universe, con un paio di buoni episodi di Captain America e con il dittico degli Avengers, Infinity War e Endgame, che li ha sospinti nell’iperspazio dei registi di film da due miliardi di dollari.

Ritornati sulla terra, si sono dedicati alla produzione di un bell’action di guerra, Mosul, di un altro fumettone avventuroso con Chris Hemsworth per Netflix, Tyler Rake – Extraction, e si sono preparati a questo Cherry, il loro primo film drammatico, dopo un decennio di immersione nei cinecomics.

Il risultato è un pasticcio velleitario e confuso, su un eroinomane rapinatore di banche, affetto da PTSD, dopo aver prestato servizio due anni in medioriente, come soccorritore.

La scelta di un attore legnosissimo e di espressività pari a zero, come il Peter Parker Tom Holland, non ha di certo aiutato a trasporre sullo schermo il romanzo largamente autobiografico di Nico Walker.

Dopo essersi aggiudicati i diritti del libro, battendo James Franco e la Warner Bros, i Russo hanno prodotto il film con la loro AGBO e poi l’hanno ceduto a Apple tv+ per la distribuzione, con una scelta che lascia francamente interdetti.

Perchè qui i Russo vogliono dimostrare a tutti di essere registi veri e non gli esecutori a contratto di Kevin Feige, e cercano uno sfoggio di tecnica fin esagerato, con cambi di frame tra un capitolo e l’altro del film, con un profluvio di carrelli in slow motion, plongé, split screen, panoramiche a schiaffo, primi piani: tutti elementi, che perdono completamente di senso su uno schermo televisivo.

Cherry è diviso in cinque capitoli più un prologo e un epilogo.

Nel 2007 l’ex soldato di 23 anni, vestito in modo ordinario con un cappello da baseball e una sciarpa a coprirgli metà della faccia, si presenta, pistola in pugno, ad una cassiera di una banca, per la sua ennesima rapina.

Il film poi torna indietro al 2002, “Quando la vita stava cominciando ho visto te“: ancora studente occhialuto, Cherry conosce Emily, una compagna di corso all’Università dei gesuiti di Cleveland, con grandi occhi da bambina, e se ne innamora quando lei gli confessa di avere un debole… per i deboli.

Le cose precipitano quando, soffocata dalla loro relazione, Emily decide di andare a studiare a Montreal in Canada. Cherry disperato non trova di meglio che arruolarsi nell’esercito: Emily nel frattempo ci ha ripensato, ma ormai è tardi, non resta che sposarsi e attendere la fine dei due anni di leva.

La seconda parte “Basic” racconta l’idiozia folle dell’addestramento, tra sergenti istruttori bugiardi e una grande finzione, che non ha nulla a che vedere con l’orrore della guerra.

Nella terza parte “Cherry” ritroviamo il nostro eroe sui campi di battaglia, in medioriente, tra bombe, mine, assalti, compagni perduti e battesimo del fuoco. E’ forse la parte migliore del film, nel suo antimilitarismo feroce che non risparmia nulla, non il cameratismo, non l’illusione della potenza di fuoco, nè il desiderio di uccidere a cui sono condannati gli uomini in guerra.

La quarta parte “Home” segna il ritorno a casa, nella casa in Ohio che i genitori dei due ragazzi, completamente assenti in quasi tutto il film, li hanno aiutato a comprare.

Se Emily ha il suo lavoro d’insegnante, Cherry perde velocemente il suo, incapace di reintegrarsi, tra incubi, dipendenze, mancato supporto psicologico e fragilità personale.

Dallo xanax all’ossicodone all’eroina il passo è breve e travolge anche Emily.

Dope Life” racconta il loro inferno di tossici, i casini in cui finiscono per colpa dello spacciatore Pills e del misterioso Black, che spingono Cherry a riparare i debiti nel modo più semplice, rapinando banche.

Solo che i soldi non bastano mai, la droga aumenta sempre di più e la fine si avvicina.

Con mossa consolatoria e moralista, i Russo ci propinano dopo un vero finale, sulle note incomprensibili e kitsch di Verdi da Un ballo in maschera, un “Epilogo” ancor più stucchevole, che vorrebbe segnare un redenzione del nostro eroe nelle patrie galere, il tutto con un montaggio ellittico al rallentatore.

Dopo aver disseminato nichilismo, un tanto al chilo, per due ore e dieci minuti, i Russo vorrebbero risolvere così, in un epico volemose bene di cinque minuti, un film che è un disastro senza capo nè coda e che sbaglia ogni scelta che compie.

Quello che resta è un polpettone velleitario, di cui non si comprende mai davvero il senso e che racconta solo una grande confusione personale. Siamo vicini a Nico Walker che l’ha scritto e in qualche modo ha esorcizzato i suoi demoni, ma francamente la sua è una storia che non ci dice davvero nulla di nuovo sulla spersonalizzazione del reduce e sulla sua incapacità di reintegrarsi. Peraltro Cherry sembra un uomo senza qualità, incapace di qualsiasi cosa, persino prima di arruolarsi per pura stupidità.

Detto di Tom Holland, che pare aver accettato solo per sfregiare la sua immagine da bravo nerd della porta accanto dei film di Spider-Man, anche la sua partner Ciara Bravo è piuttosto modesta e infantile nel ruolo di Emily. Il cast di contorno è debolissimo, anche per scelta di scrittura, con il più noto Jack Raynor (Transformers: Age of Extintion, Detroit, Midsommar) nel ruolo di Pills e Michael Gandolfini, che rivedremo presto nel ruolo del giovane Tony Soprano, in quelli dell’amico Joe.

Il film sviluppa rapporti sempre orizzontali e di sola dipendenza, affettiva o reale: non c’è mai un confronto con l’autorità, sia pure in un film che racconta la vita di un militare, non c’è mai un rapporto con genitori o altri adulti, datori di lavoro, polizia. Persino il minaccioso spacciatore Black non è mai inquadrato in volto. Il piccolo universo di Cherry è sempre autosufficiente. Ci sono solo lui, Emily e le loro siringhe.

I Russo, coadiuvati dal direttore della fotografia Newton Thomas Sigel (I soliti sospetti, X-Men, Three Kings, Drive, Bohemian Rhapsody, Extraction, Da 5 bloods), mostrano i muscoli della tecnica, che non si fa però mai stile e sguardo sul mondo e finisce per restare fine a se stessa. Non ci si inventa Scorsese o De Palma con un carrello o un’inquadratura dall’alto.

Desolante e pretenzioso.

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