Tratto dalla graphic novel Ciudad, adattata per lo schermo da Joe Russo, Tyler Rake – Extraction è il debutto alla regia di un altro stunt coordinator, Sam Hargrave.
La produzione dei fratelli di Avengers e il coinvolgimento di Chris Hemsworth hanno spinto Netflix ad investire tempo e risorse per un action old syle, pieno di inseguimenti e corpo a corpo.
E’ curioso come gli stuntmen da almeno un lustro, prima con Chad Stahelski, quindi con David Leitch, siano diventati tra i più richiesti registi d’azione, quasi che la capacità di coreografare corpi e mezzi abbia fagocitato interamente l’idea della messa in scena.
E’ abbastanza evidente che con il monopolio della Marvel, il prosciugarsi delle influenze orientali e il declino del thriller puro, le scene d’azione dei più recenti film di genere si siano ridotte per lo più a sciatte e svogliate rappresentazioni della dinamicità, che una volta era la quintessenza stessa di quello che chiamavamo cinema-cinema.
Nessuna cura nella costruzione geometrica, se non architettonica, dell’immagine, nessuna idea di messa in scena del corpo-cinema, nessuna capacità di far parlare la grammatica delle immagini, rispetto alle superfetazioni dell’onnipresente computer grafica.
Come spesso accade a Hollywood, la soluzione immaginata è semplicemente una scorciatoia: affidiamo agli stunt coordinator la regia dei nostri prodotti action e speriamo che la competenza specifica, restituisca a questi ultimi un po’ dell’originalità e della credibilità perdute.
In questo quadro si inserisce l’esordio di Sam Hargrave, già al lavoro sui set di Infinity War e Edgame, Deadpool 2, Civil War, Atomica bionda, Suicide Squad, Hunger Games, Pirati dei Caraibi.
Tyler Rake è un marine che ha fatto tre tour in Afghanistan. Ora lavora per un contractor privato, l’affascinante Nick, che si occupa di missioni impossibili.
Nel prologo lo vediamo a Dhaka, in Bangladesh, su un ponte crivellato di colpi, mentre i ricordi del figlio morto di tumore a soli dei anni, sembrano il preludio della fine.
Il nastro si riavvolge: due giorni prima a Mumbai, il figlio adolescente di un trafficante di droga, Ovi Mahajan, che sta scontando una condanna in carcere, viene rapito da un altro trafficante, Amir Asif, che lo porta a Dhaka appunto, nel suo feudo criminale.
Lo smacco non potrebbe essere più grande per Mahajan, che ha i beni bloccati dall’antidroga e non vuole e non può pagare il riscatto. Il suo braccio armato, Saju, contatta così Nick e il suo miglior uomo, Tyler Rake, disperso a Kimberly in Australia, per portare a termine la missione disperata di recuperare Ovi Jr.
Tyler è un’arma letale, praticamente invincibile, ma dopo aver recuperato il ragazzino, si troverà a dover deviare dal piano di recupero originario, quando si accorge che qualcuno sta facendo il doppio gioco.
Chris Hemsworth, che prima di mostrare al sua verve demenziale in Thor: Ragnarok e Avengers: Endgame, ha lavorato nell’ultimo film del maestro del cinema action per antonomasia, Michael Mann, si presta qui ad un ruolo di implacabile e inarrestabile macchina di morte.
Hargrave si focalizza su di lui e infila una serie di sequenze di pura azione, che alternano arti marziali, fughe, corpo a corpo, sparatorie, spericolate fughe in auto, privilegiando nobilmente l’idea del piano sequenza, che mostra davvero lo stunt e l’attore al lavoro, senza le mistificazioni del montaggio.
O meglio questa è l’impressione che il film vuole dare, ma ormai la tecnologia, come 1917 ci ha mostrato sino alla noia, consente di nascondere i tagli di montaggio quasi alla perfezione, facendo sembrare prodigi tecnici e sofisticati long take, quelli che in realtà sono per lo più trucchi tecnologici.
Tuttavia si nota in modo evidente che il film ha nelle lunghe scene di pura performance cinetica una spinta in più. In particolare il lungo piano sequenza di dodici minuti, sui tetti e poi in auto con una ripresa dall’interno del veicolo che diventa un camera car e quindi insegue i due personaggi a piedi, è prodigiosa, pur se l’inganno non sfugge all’occhio smaliziato.
Purtroppo al di là dell’indiscutibile abilità nella messa in scena dei movimenti, il film perde mordente e originalità ogni volta che i suoi protagonisti si fermano e che la storia dovrebbe farli rifiatare: lo sviluppo dei caratteri, le motivazioni, la definizione dei ruoli, le dinamiche narrative sono tutte scolpite con l’accetta, affidandosi a cliché e topoi abusati, che schiacciano i personaggi facendone figurine assai poco interessanti e prevedibili.
Non basta saper mettere in scena un conflitto all’arma bianca o un’inseguimento a quattro ruote per diventare un regista. Il film, che il finale aperto spinge ad essere solo il capostipite di una saga, resta così complessivamente insapore, appaga l’occhio per lo spazio della visione, ma non lascia alcun ricordo, neppure a breve termine.
Trattandosi di un personaggio nuovo, che non ha passato e non ha storia, nè tantomeno mitologia, su cui costruire la propria aura, Tyler Rake resta piuttosto un protagonista anonimo, incolore, neppure capace di rinverdire l’imperturbabilità robotica di uno Schwarzenegger prima maniera.
Peraltro il copione non gli regala che una sola contrita espressione, che Hemsworth mantiene per le due ore del film, con un rigore degno di miglior fortuna.
Alla fine Tyler Rake – Extraction resta un onesto intrattenimento da sabato sera.
Much Ado About Nothing, avrebbe detto il Bardo.
