Soul

Soul ***1/2

Dopo l’addio forzato di John Lasseter nel 2018, Pete Docter, il regista di Soul, è stato scelto come nuovo direttore creativo della Pixar, il colosso dell’animazione computerizzata – nato dal talento visionario di Alvy Ray Smith e Edwin Catmull, supportati da George Lucas e Steve Jobs – capace di portare sullo schermo, grazie al celebre braintrust creativo, in cui Andrew Stanton, Brad Bird e Lee Unkrich affiancavano proprio Lasseter e Docter, 23 lungometraggi in 25 anni, dopo il debutto epocale di Toy Story.

Il Leone d’Oro collettivo, assegnato alla Mostra del 2009, ha segnato forse l’apice creativo della casa di produzione, che nell’ultimo decennio ha faticato a trovare l’originalità degli inizi, aumentando i sequel non necessari e diluendo nella quantità le vette qualitative, anche perchè, dal 2006, la società è stata acquistata dalla Disney.

Tuttavia i film più importanti della Pixar dell’ultimo decennio (Up, Inside Out) portano la firma proprio del regista di Soul, Pete Docter, non solo come regista, ma anche come co-sceneggiatore.

Il destino di questo ultimo film è stato travolto dalla pandemia, che l’ha privato di una vera prima al Festival di Cannes e l’ha costretto a rinunciare all’uscita in sala, in favore di un debutto natalizio su Disney+.

E’ evidente la natura programmatica di Soul, sia come punto d’arrivo di un discorso filosofico lungo ormai un quarto di secolo, sia perchè radicalizza la scelta di un’animazione per adulti e torna su questioni chiaramente metafisiche e ontologiche, che investono direttamente il cuore del film.

Joe Gardner è un insegnate precario di musica in una scuola media di New York. La sua passione è però il jazz: il padre l’ha inseguita tutta la vita e ora la stessa ossessione è passata a lui. La grande occasione arriva quando un suo ex alunno lo chiama per una sostituzione last-minute per uno show all’Half Note, con la sassofonista Dorothea Williams.  Nella stessa mattina la preside gli comunica che potrà avere un contratto vero, full time, come insegnante.

Nonostante i desideri della madre, che lo vorrebbero finalmente sistemato, Joe si presenta alle prove con Dorothea Williams e convince la musicista ad assumerlo.

Uscendo però dall’Half Note con la testa tra le nuvole, finisce in un tombino aperto e si ritrova improvvisamente nell’al di là, indirizzato al definitivo Great Beyond.

Cercando di sfuggire al suo destino, finisce per caso al contiguo Great Before, ovvero lo spazio in cui le nuove vite si avviano sulla Terra, dopo un periodo in cui si formano il carattere, le attitudini, le affinità e si individua quella scintilla vitale, capace di completare il loro percorso, anche grazie ad un notevole gruppo di mentori.

Joe viene scambiato per un premio Nobel e gli viene affidata l’anima numero 22, che vaga da molti secoli in questo limbo, in attesa della propria scintilla: invano ci hanno provato Gandhi, Lincoln e Madre Teresa.

Così mentre 22 vuole evitare a tutti i costi di arrivare sulla Terra, Joe invece non desidera altro che ricongiungersi con il proprio corpo, tenuto in vita da una macchina in un ospedale di New York. Finiranno per arrivarci lo stesso, non come avrebbero sperato.

I due saranno coinvolti in un’avventura contro il tempo, mentre Joe cerca di mantenere il posto come pianista, evitando che il rigoroso contabile del Great Beyond si accorga che manca all’appello proprio la sua anima.

Il nuovo film di Docter, scritto e co-diretto con Kemp Powers (One Night in Miami) è un altro tentativo di immaginare uno spazio narrativo inedito e inconsueto: se Inside Out era un viaggio nella mente e nelle emozioni, qui il territorio è ancor più delicato.

Soul immagina un al di là, in cui la fine e l’inizio si toccano e si influenzano, in cui il caso e la volontà sembrano determinare in destino, ancor prima che questo si compia. Ma poi, come spiegherà il barbiere a Joe, le cose possono andare molto diversamente e ciascuno diventa artefice della propria vita, al di là delle intenzioni e delle aspirazioni.

Come nei migliori film della Pixar, Soul non si ferma mai, è un fuoco d’artificio di invenzioni narrative, di svolte inattese, di personaggi sorprendenti e di grande, profonda commozione.

Come accade nel jazz evocato più volte, nel corso del film, Soul usa uno standard già noto per assumere forme inedite e direzioni inaspettate, concendosi anche il lusso di un finale pacificato, ma aperto all’infinita imprevedibilità della vita.

C’è uno straordinario spirito umanista, assieme ad un ottimismo, che si vela di malinconia e consapevolezza e che non nasconde dolori e sconfitte.

Il viaggio di Soul è un duplice percorso di formazione, da un lato di costruzione identitaria e di superamento delle proprie paure e dall’altro di messa in discussione di sè e delle proprie certezze.

Il protagonista è un uomo che ha raggiunto il mezzo del cammin, un musicista che ha inseguito il sogno di poter vivere della sua musica e delle sue performance per tutta la vita.

Ma Joe capisce che non è la realizzazione di quel sogno che darà significato alla sua esistenza, che il successo professionale e personale non è l’unica misura per giudicare le sue scelte.

Joe e 22 si troveranno a dover fare i conti con imprevisti, rinunce, errori, comprenderanno la bellezza della vita e la grazia del dono. Ma anche il senso della fine, che è parte della stessa storia, dello stesso viaggio.

Qualcuno ha criticato l’immaginario del Great Before, creato da Docter in modo un po’ troppo simile  a quello di una corporation americana. Tuttavia non mi pare che il film indugi in un’apologia di quelle dinamiche, mostrando invece il percorso di due monadi, che non si conformano, che sfuggono al proprio percorso, introducendo poi quello spazio oscuro dell’ossessione, solcato da una nave pirata, come salutare antidoto ad un al di là fin troppo ordinato.

Il film contiene poi un singolare rifiuto della logica tutta americana e un po’ muscolare della performance, dell’ideologia dominante che distingue i pochi vincenti e confina tutti gli altri tra i losers: in Soul invece ogni cosa ben fatta può essere utile agli altri e soddisfacente per sè, persino insegnare alle scuole medie o fare da mentore ad un’anima perduta e timorosa, perchè anche l’assolo più ispirato non è altro che una routine, destinata a ripetersi ogni sera.

Soul, come i migliori film della Pixar, parla forse più a noi adulti, che ai bambini, destinatari d’elezione del cinema d’animazione, che troveranno forse complicato identificarsi nelle ansie di 22 e ancor meno in quelle del maturo Joe.

Ma non è un difetto, è invece l’ennesimo segno di maturità di un genere, che ha da molto tempo rotto gli steccati e che ambiziosamente ritiene di poter parlare a tutti.

Soul chiude significativamente una lunga stagione di successi e vede lo scioglimento definitivo di quel braintrust creativo originale: i prossimi tre film della Pixar saranno diretti da registi esordienti. Per la piccola grande società è un nuovo inizio, come quello che si trova ad affrontare Joe, alla fine del film.

Nel cast originale sono Jamie Foxx e Tina Fey a dar voce ai due protagonisti. La colonna sonora è curata per la parte jazz da Jon Batiste e per le parti strumentali dallo straordinario duo Trent Reznor & Atticus Ross, collaboratori di tutti i film di Fincher da The Social Network in avanti e che nel solo 2020 ci hanno regalato anche le colonne sonore di Watchmen e Mank.

Imperdibile.

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