Il dodicesimo film di Gabriele Muccino, omaggio dichiarato a C’eravamo tanto amati, è in fondo uno dei suoi più personali e riusciti, dove l’equilibrio tra il racconto struggente della gioventù e le disillusioni dell’età adulta si sovrappongono felicemente nel viaggio che porta quattro amici, dall’estate del 1982 ai giorni nostri, tra sogni, tradimenti, speranze, amarezze.
Muccino e Paolo Costella, che scrivono la sceneggiatura a quattro mani, recuperano solo il canovaccio sentimentale e personale del capolavoro di Ettore Scola, Age e Scarpelli, lasciando sullo sfondo ogni idealità, ogni riflessione sociale o politica, ogni idea di comunità, punteggiando invece un racconto profondamente intimo, con alcune immagini storiche, dalla caduta del Muro a Tangentopoli, dalla discesa in campo di Berlusconi al’11 settembre, che suonano posticce e non si integrano mai nel racconto.
Che comincia appunto in un pomeriggio d’estate, in una discoteca da cui i tre protagonisti fuggono per vedere gli scontri tra autonomi e polizia, in mezzo alla strada. Uno dei tre, Riccardo, viene colpito da una pallottola vagante e da allora per tutti sarà sempre Sopravvissu’.
Gli altri due sono Giulio Ristuccia, figlio di un meccanico violento e imbroglione e Paolo Incoronato, che dà una mano al bar di famiglia.
Ristuccia e Incoronato, i nomi di sempre del cinema di Muccino, sin dall’esordio di Ecco fatto.
Tra di loro, la biondissima Gemma, di cui Paolo si innamora ma che deve abbandonare quanto lei i trasferisce a Napoli dalla zia, alla morte della madre malata.
Passa il tempo e ciascuno segue la sua strada: Giulio diventa avvocato e si occupa di difendere chi non può permetterselo, fino a che non gli capita di dover sostituire il titolare dello studio, in un grande processo ad un ex ministro della sanità; Paolo fa il professore precario, in attesa di una cattedra di lettere e Riccardo si arrangia scrivendo qualche pezzo di spettacolo per Il Messaggero, per la disperazione della moglie Anna, che vorrebbe altre sicurezze.
Quando Gemma torna da Napoli, molti anni dopo, per stare con Paolo, sarà lei a far deflagrare l’amicizia fra i tre, che la vita allontanerà ancora di più, spingendoli verso strade molto distanti.
Nonostante le consuete ingenuità di Muccino, il modo sempre troppo auto-assolutorio con cui racconta i suoi personaggi, le scene-madri, le fughe e i ritorni, i sentimenti vissuti come in una centrifuga spinta alla massima velocità, le lacrime e le parole urlate, non si riesce davvero a voler male a questo suo Gli anni più belli.
Perchè la costruzione dei personaggi è sincera, le loro storie sono un po’ quelle di tutti, la loro confusione, le loro piccolezze, la superficialità, i difetti. E’ un quadro piccolo, in fondo, quello di Muccino, senza ambizioni universali.
Se i punti di contatto con il film di Scola riguardano soprattutto l’evoluzione dei personaggi, il resto è molto diverso, anche perchè il nostro cinema è diverso e anche l’Italia di Gli anni più belli, è un altro Paese, in cui la dimensione collettiva si è persa definitivamente, rinchiuso in un privato che è totalizzante e opprimente e che neppure le pagine di storia più dirompenti riescono davvero a smuovere.
Persino il coinvolgimento di Riccardo con il Movimento del cambiamento, è più frutto della reazione sfiduciata del personaggio ai dolori della vita, che non un’adesione convinta e capace di produrre senso nel film.
Più interessanti invece le parole di Rossi Stuart ai suoi alunni di liceo, sul bisogno leopardiano del consenso paterno, sulla necessità di essere confortati dal giudizio altrui. Lo dice ai suoi studenti, ma è come se lo raccontasse a se stesso e ai suoi amici: non lasciate che sia il mondo a definirvi.
Il film corre veloce alternando storie e racconti dei tre personaggi, ma si vorrebbe restare di più con Paolo e con i suoi ragazzi.
C’eravamo tanto amati possedeva, come scrive Roy Menarini “un’amarezza di fondo e una forza evocativa ancora oggi di grande effetto. È come se la commedia all’italiana, al canto del cigno, si piegasse a riguardare trent’anni di storia attraverso i suoi disillusi rappresentanti“. Gli anni più belli non ha mai quella forza e quel coraggio, si accontenta semmai di raccontare quattro personaggi e quattro storie, che richiamano quelle originali: il suo perimetro d’elezione è proprio il film di Scola, piuttosto che il Paese in cui i suoi personaggi sono chiamati a vivere.
Fortunatamente il cast che Muccino ha coinvolto è davvero in stato di grazia e riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore, pur con tutti i limiti di scrittura e di messa a fuoco che il film mantiene. Favino è l’enigmatico Giulio, che sembra sempre subire il suo destino, ma che è invece forza narrativa notevole e compiuta, pur nel suo essere remissivo. Basterebbe la scena in cui accompagna la figlia, ormai grande, a vedere la casa in cui aveva vissuto sino ai diciott’anni, un umile basso nei vicoli, in cui le questioni si risolvevano “a cinghiate”, per comprendere lo stato di grazia di questo gigante del nostro cinema, capace in meno di un anno di affrontare tre ruoli (Il traditore Tommaso Buscetta, Bettino Craxi di Hammamet e questo Giulio Ristuccia de Gli anni più belli) in modo radicalmente diverso, sfruttando un repertorio interpretativo pressochè illimitato.
Paolo è il solito bravissimo Kim Rossi Stuart, generoso, sincero, capace di attendere quella felicità, che tutti sembrano affannarsi a cercare.
Micaela Ramazzotti regala al personaggio di Gemma tutta la sua malinconica credibilità, nonostante il ruolo sia il più debole e ricada nel solito cliché mucciniano delle donne irrisolte, che non sanno quello che vogliono e “la danno via con la fionda”. Tra slanci ed emotività, tuttavia la Ramazzotti è capace di portare la sua irrequietezza e il suo disincanto nelle relazioni con gli altri personaggi. Era da La pazza gioia che non ci appariva così convincente.
Più marginale il ruolo di Riccardo, interpretato da Santamaria, che non riesce mai a farci palpitare davvero per il più sfortunato del gruppo.
Curioso che i tre personaggi maschili siano i protagonisti di Romanzo Criminale di Placido, che quindici anni fa, tentava già l’affresco romano di quegli anni da una prospettiva del tutto differente e di puro genere.
Muccino cerca di tenere maggiormente sotto controllo, rispetto ai suoi eccessi proverbiali, la temperatura emotiva del film, mette la sordina anche alla sua messa in scena, usa la macchina da presa con la consueta maestria, ma in modo meno frenetico, meno irrequieto. Limita anche le scene urlate e risolve alcuni nodi drammatici, ricorrendo all’interpello diretto degli attori verso il pubblico, rompendo così la quarta parete, soprattutto all’inizio.
Avrebbe dovuto tenere più controllata la colonna sonora di Nicola Piovani, che accompagna con un po’ troppa insistenza, le due ore abbondanti del film.
Il suo cinema dei rimpianti e della nostalgia di un passato pieno di possibilità è sempre fedele a se stesso, ma qui si sente un’urgenza narrativa più forte.
Come sempre bravissimo a raccontare l’esuberanza febbrile e i sentimenti elettrici dell’adolescenza, questa volta Muccino riesce a controllare meglio anche il racconto dell’età adulta, tentando coraggiosamente il ritratto di una generazione fuori fuoco, incapace di crescere, tra le incertezze lavorative e le inadeguatezze sentimentali, chiusa troppo spesso in un’eterna adolescenza.
Sapendolo incapace di quella cattiveria e di quella amarezza, che hanno fatto grande la nostra commedia, finiamo così per accettare anche questo finale riconciliato, in cui ci si può ritrovare tutti, una volta ancora, a guardare l’orizzonte, finalmente in pace con se stessi.