La pazza gioia ***
Quinzaine
Beatrice is a blabbermouth and a so-called billionaire countess who likes to believe she’s in intimacy with world leaders. Donatella is a young quiet tattooed woman, locked in her own mystery. They are both patients of a mental institution and subject to custodial measures.
Paolo Virzì’s new film tells the story of their unpredictable friendship and their escape from the treatment constraints that will become an hilarious and moving adventure of two technically insane creatures, looking for a bit of fun and love in this open-air nuthouse, the world of healthy people.
Presentato alla Quinzaine, il nuovo film di Paolo Virzì si muove perfettamente all’interno della tradizione della più classica commedia all’italiana.
Unico erede della lunga scuola dei Monicelli, dei Risi, dei Germi, il regista livornese torna nella sua amata toscana, dopo il nero lombardo de Il capitale umano, per raccontare la storia di due donne umiliate e ferite, costrette in una comunità di recupero per malati di mente, da cui quasi per caso riescono ad evadere, dandosi alla pazza gioia e cercando di riannodare i fili di un passato che continua a pesare sulla loro infelicità.
Beatrice Morandini Valdirana è una nobile decaduta, sposata ad un ricco avvocato, che si è giocata il patrimonio di famiglia, per inseguire l’amore di un poco di buono, ora agli arresti domiciliari: ricorda i bei giorni al G7 di Napoli, con il Presidente, con Bill e Hillary.
Il demi-monde a cui ora è costretta, in mezzo a donne fuori di testa, in una comunità che era probabilmente patrimonio di famiglia, aumenta la sua insofferenza, la sua dipendenza dal valium e la sua irrefrenabile logorrea snob.
Quando arriva una nuova ospite, la catatonica Donatella Morelli, Beatrice la prende sotto la sua ala: la coinvolge in discorsi assurdi, la mette al lavoro nell’orto botanico, condivide la sua stanza con lei.
Incapace di rispettare la privacy altrui, Beatrice cerca di scoprire i motivi che hanno spinto Donatella in comunità, dopo un tentato suicidio.
Approfittando di un ritardo del pulmino che le accompagna al lavoro, Beatrice e Donatella prendono un autobus, riparano in un centro commerciale e poi fuggono, rubando un’auto e girando per la toscana, senza davvero una meta.
L’infaticabile capacità affabulatoria di Beatrice vince ogni resistenza, fino a che l’obiettivo delle due diventa quello di trovare il figlio che Donatella è stata costretta ad abbandonare, affidato ad una nuova famiglia.
Il viaggio di Paolo Virzì è un’autopsia dell’Italia degli anni ’90, del miracolo italiano e delle ragazze immagine, bruciate dalle droghe e dalle promesse di pr, inquartati e senza scrupoli.
E’ l’Italia delle ‘cene eleganti’, che ha lasciato dietro di sè solo un cumulo di macerie morali e psicologiche.
Donatella e Beatrice, in fondo, non sono così lontane come sembrerebbe. Sono due reduci di quell’illusione sintetica, che ha lasciato dietro di sè un paese stremato, senza identità, involgarito e corrotto.
Un paese costretto a cedere le sue proprietà per farne set per un ‘cinema italiano’, che rimette in scena gli eterni anni ’60 delle Lancia scoperte e dei vestiti pastello.
Virzì ne ha per tutti, affonda il bisturi nel corpo devastato del paese e usa perfettamente l’espediente narrativo della fuga delle due protagoniste, per mostrare un’Italia di pazzi, ancor più marcia e degradata di quel microcosmo, in cui le due erano costrette a vivere.
Lo sguardo impietoso del moralista, racconta un paese di approfittatori e guardoni, di badanti che mirano all’eredità di vecchi con le mani lunghe, di servizi sociali inadeguati e sordi, di padri che rincorrono una gioventù eterna e irresponsabile.
Il film mantiene un equilibrio perfetto tra il carnevale perenne in cui le due protagoniste sono catapultate e l’istintiva simpatia con cui le due sono dipinte: grande merito va riconosciuto a Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, che pur in maniera radicalmente difforme, riescono a infondere ai due personaggi una carica di realismo e vitalità che brucia, commuove, lascia senza parole.
Virzì e la Archibugi, che per la prima volta ha collaborato con il regista in fase di sceneggiatura, hanno creato due personaggi fuori scala, volti di un Italia umiliata e tradita.
Peccato che il film, nell’ultima parte, ceda un po’ al sentimentalismo, perda un po’ di quella brutale cattiveria su cui era costruito, in favore di un ritorno all’ordine costituito, che suona un po’ di maniera, accanto ad un ritratto familiare e delle istituzioni giudiziarie e ospedaliere un po’ troppo edulcorato.
D’altronde, siamo pur sempre in una commedia e il dolce e l’amaro non possono che andare a braccetto: così come le due sciroccate protagoniste, che alla fine si guardano, si sorridono, si riconoscono.
Da non perdere.