Il traditore

Il traditore ***

Il traditore, l’ultimo film di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes e da stasera in tutte le sale italiane, racconta la storia di Tommaso Buscetta, uno dei primissimi pentiti di mafia. La sua collaborazione con la giustizia fu decisiva per consentire a Giovanni Falcone di istruire quello che è passato alla storia come il Maxi-processo a Cosa Nostra, nel 1986.

Per Bellocchio si tratta di una nuova potente riflessione su un microcosmo criminale, che il suo cinema non aveva mai indagato prima, unita – come spesso accade nei suoi film – al ritratto di uno dei personaggi più misteriosi e decisivi della nostra storia recente. Il traditore cerca di indagare i motivi psicologici, prim’ancora che culturali, del suo pentimento, della sua diserzione.

Nato a Palermo nel 1928 da una famiglia poverissima, attivo nel mercato nero e nel contrabbando durante il ventennio fascista e poi nel primo dopoguerra, Tommaso Buscetta è affiliato alla cosca di Porta Nuova nel 1945.

Trafficante e killer per La Barbera durante gli anni della Prima Guerra di Mafia, dopo la strage di Ciaculli del 1963 si trasferisce all’esterno, negli Stati Uniti e in Sudamerica, continuando la sua attività.

Arrestato una prima volta nel 1972 dalla polizia brasiliana, viene estradato all’Ucciardone, dove sconta otto anni di galera, per traffico di stupefacenti. Durante un trasferimento in Piemonte, nel 1980 riesce ad evadere e a rifugiarsi a casa di Nino Salvo, sotto la protezione di Bontade, Badalamenti e Inzerillo.

Il film di Bellocchio comincia proprio il 4 settembre 1980, il giorno di Santa Rosalia, quando a casa di Stefano Bontade si ritrovano i capi delle diverse famiglie, per cercare di evitare quella che passerà poi alla storia come la Seconda Guerra di Mafia.

Buscetta è solo un soldato semplice, non partecipa direttamente al vertice. Lo vediamo aggirarsi nervoso e vestito di bianco, nel bellissimo palazzo sul mare, quando dalla finestra scorge il figlio, eroinomane completamente strafatto sulla spiaggia.

La droga che sta rendendo immensamente ricchi e avidi i capi mandamento, sta divorando i loro stessi figli.

Nella foto di pace, che scatteranno quella sera i corleonesi e gli uomini di Badalamenti, ci sono tutti i protagonisti di questa storia.

A cominciare da Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra, amico di Buscetta sin dall’infanzia, che si allea con Riina, contribuendo a sterminare il clan di Bontade, Inzerillo, Contorno, quella che passerà alla storia come la mafia perdente.

Buscetta è già fuggito in Brasile, quando gli uccidono il fratello, poi il nipote, quindi i due figli grandi, rimasti a Palermo. Il cerchio si stringe anche attorno a lui e a Totuccio Contorno, miracolosamente sfuggito ad un attentato e riparato a Roma.

Arrestato in Brasile e poi estradato a Roma, Buscetta decide di parlare con Giovanni Falcone, sostituto procuratore a Palermo, rivelando struttura, uomini e strategie di Cosa Nostra.

Don Masino ritiene infatti che, sotto la guida dei Corleonesi, lo spirito primigenio della loro associazione era stato irrimediabilmente travisato e tradito.

Il film di Bellocchio accompagna il suo protagonista, attraverso gli anni, e dopo l’arresto e l’estradizione, mostra soprattutto i suoi interventi pubblici, per lo più nei processi istruiti grazie alle sue rivelazioni. A rompere questa lunga teoria di confronti e scontri giudiziari, un’intervista televisiva, la strage di Capaci e i funerali di Stato che la seguirono, l’arresto di Totò Riina e i pochi momenti familiari di Buscetta, negli Stati Uniti, sotto protezione.

Il traditore è uno dei film di Bellocchio più controllati, lineari, inesorabili. La gravità dei personaggi, la loro miseria intellettuale, non consentono altro che una messa in scena testuale delle loro imprese, delle loro parole. Questa volta non c’è nulla di teatrale, nulla di melodrammatico.

L’idea di Bellocchio è di mostrare i suoi personaggi per quello che sono davvero, lontani dalla retorica del criminale che si trasforma in eroe, dell’uomo d’onore, che improvvisamente scopre una vocazione diversa.  Il suo è un film che rifugge l’empatia, prim’ancora dell’epica che spesso si accompagna ai romanzi criminali.

Il mondo che racconta Il traditore rimane profondamente estraneo a Bellocchio: rispetto alla famiglia borghese, alla religione, all’estremismo politico, al fascismo, che ha raccontato nei suoi film, qui c’è una distanza che non si colma mai.  Cosa Nostra è qualcosa di estraneo al carattere italiano, è un microcosmo parallelo, che magari cerca la legittimità del potere ufficiale, cercando di infiltrarlo, ma che rimane separato e altro. Per questo forse il suo film sceglie la strada inedita del realismo.

Eppure il film, anche nella ricostruzione fedele di quel verminaio, ci regala immagini di inquietante potenza evocativa: le torture dei brasiliani a Buscetta a bordo di un elicottero, i picciotti che sputano sulla televisione, che mostra le immagini della strage di Capaci, le parole della vedova dell’agente Vito Schifani, che vengono trasmesse a circuito chiuso nelle celle di Riina e di Calò o ancora Buscetta, che gira per i corridoi della questura di Roma, dov’è segretamente confinato, in bicicletta.

Per non parlare del momento in cui Andreotti, in mutande, cammina nella stessa sartoria romana, che Buscetta ha scelto per acquistare l’abito con cui si presenterà al Maxi-processo e della testimonianza di Totuccio Contorno al processo di Palermo, letteralmente incomprensibile a causa del dialetto stretto e della parlata rapidissima, l’unica che il mafioso conosceva.

Ma sono brevi momenti, spunti fulminanti, che restano episodici, rispetto al flusso narrativo principale. Quasi a dirci che quel mondo oscuro e vicino, ci rimane sempre incomprensibile, nonostante abbiamo imparato a comprenderne – anche grazie a Buscetta – modalità e segni.

Film di grande densità, Il traditore si muove in modo severo, aiutando gli spettatori con semplici, efficaci didascalie, che mostrano luoghi, date e nomi dei personaggi, un po’ come avveniva anche ne Il divo di Sorrentino.

Sposando interamente il punto di vista di Tommaso Buscetta, Bellocchio avrebbe rischiato di legittimare quello che è stato, in ogni caso, un killer spietato e un trafficante di morte. Uno che ha parlato molto degli altri, ma pochissimo di sè e dei suoi crimini. Ma il copione scritto, tra gli altri anche da Francesco Piccolo, si riserva proprio nel finale, di ricordarci una volta per tutte, chi era e cosa faceva Don Masino, prima di diventare collaboratore di giustizia. E affida all’interrogatorio di Franco Coppi, durante il processo ad Andreotti, la progressiva distruzione della credibilità di Buscetta, sia dal punto di vista giudiziario, sia da quello morale.

Morto Falcone anche il boss rimane solo, così come scrisse Enzo Biagi dopo averlo intervistato, in un momento che il film ricostruisce con una certa amarezza.

Il ritratto di Pierfrancesco Favino racconta un uomo sconfitto due volte.

La prima volta all’interno dell’organizzazione ha cui ha dedicato quarant’anni della sua vita, quindi all’esterno di questa, costretto, come l’Henry Hill di Quei bravi ragazzi, ad una vita anonima a Salem, nel New Hampshire, dopo aver assaporato il gusto forte delle belle donne, delle armi, dei milioni, anzi, dei miliardi, come confessa a Contorno, impiegato in una concessionaria, sotto copertura.

Il tema del tradimento è centrale nel modo in cui un uomo di Cosa Nostra immagina il mondo e vede se stesso all’interno di questo mondo.

E Buscetta comincia a tradire Cosa Nostra quando abbandona la prima moglie: l’amore per le femmine lo condannerà a rimanere un soldato semplice nella struttura piramidale della mafia, così come racconta a Falcone.

Quindi la tradisce ancora, rifugiandosi in Brasile, quando infuria la Seconda Guerra di Mafia tra i Corleonesi e il suo capo mandamento. La sua fuga infatti sarà una condanna a morte per i suoi figli e per suo fratello.

Infine la tradirà rompendo il legame di sangue e omertà e raccontando ad un giudice, le cose che sapeva e che aveva appreso, nei suoi anni all’interno di Cosa Nostra.

Eppure Buscetta non si sente un traditore, ma confessa di essersi sentito lui stesso tradito, dal regime di terrore imposto a Cosa Nostra dai Corleonesi, dalle strategie scellerate della nuova mafia. Ed è proprio qui che Falcone lo interrompe, sconfessando bruscamente il mito di una criminalità antica dai valori saldi, quella dell’onore e del rispetto, che è parte stessa dell’immagine distorta e ipocrita, che si tramanda nel tempo.

Bravissimo Favino ad interpretare il boss dei due mondi, attraverso gli ultimi vent’anni di vita, con un’adesione mimetica, che lascia sempre spazio per l’umanità contraddittoria, di un uomo che ha vissuto due volte.

La fotografia di Vladan Radovic è notevole, pur dovendo fare i conti con interni spesso spogli, illuminati al neon. Altrettando essenziale il contributo di Francesca Calvelli, che dona al film il suo incedere controllatissimo, consentendo a chiunque di districarsi nella fitta rete di personaggi e storie.

Nel grande affresco politico e morale di Bellocchio manca forse, come in Buongiorno, notte il film che più si avvicina a questo, nella lunga filmografia del regista di Bobbio – quell’elemento onirico, fantastico, capace di mettere sotto scacco la realtà, per trasportare la Storia che conosciamo, verso i territori magmatici del cinema.

Ma forse stavolta, c’era ben poco da immaginare, c’era poco da inventare. Bellocchio resta lontanissimo dalla spettacolarizzazione della violenza e come mostra quella progressione di numeri, che scorre sullo schermo, a segnare il conto impressionante dei morti, durante la Seconda Guerra di Mafia, di fronte a uomini così grevi e meschini, l’unica cosa che si può fare è raccontare.

Come dice Falcone a Buscetta, con l’essenzialità, che il film fa propria: ‘alla fine si muore e basta‘.

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