Terzo remake del film del 1937, E’ nata una stella, firmato da William Wellman che a sua volta si era ispirato al Cuckor di A che prezzo Hollywood?, questa nuova versione diretta da Bradley Cooper ed interpretata assieme a Lady Gaga, ruba elementi da quasi tutti gli adattamenti precedenti, ma soprattutto da quello del 1976 di Frank Pierson, raccontando la storia della cameriera Ally, scoperta per caso in un nightclub per drag queen dal cantante rock Jackson Maine e spinta verso il successo, grazie alla generosità e all’amore di quest’ultimo.
Jackson però, che soffre di acufene e che riesce a tenere a bada i suoi demoni solo grazie ad alcol e droga, scenderà la scala del successo tanto rapidamente quanto Ally riuscirà a salirla, diventando una star pop di prima grandezza.
Il prezzo dell’ascesa è però il tradimento dell’ispirazione originale, di quel curioso e sincero sodalizio artistico e sentimentale.
Annunciato da squilli di tromba come the next big thing in arrivo da Hollywood, il film della Warner segna due debutti: quello di Cooper dietro la macchina da presa e quello di Lady Gaga sul grande schermo, con un ruolo da protagonista.
Se Cooper se la cava discretamente, impaginando la sceneggiatura, scritta con Eric Roth e Will Fetters, con una professionalità encomiabile, anche grazie alla fotografia calda di Matthew Libatique, Gaga invece è davvero un disastro: nonostante lo sforzo evidente e il tentativo di replicare le idiosincrasie di Barbra Streisand – che ha interpretato lo stesso ruolo quarant’anni fa – la sua performance è spesso ai limiti dell’imbarazzo, a cominciare dalla prima scena nei bagni del suo posto di lavoro.
Gaga si riscatta quando deve cantare e ballare, ovvero quando non ha spazio per recitare ed interpreta se stessa sulla scena: allora il suo talento emerge e la sua presenza scenica acquista spessore.
Peraltro, anche dal punto di vista musicale, i pezzi scritti per il film, assieme a Mark Ronson sono lagne d’amore di inenarrabile stucchevolezza e stridono con la rude vitalità di quelli suonati e cantati da Bradley Cooper.
Forse solo il primo brano, Shallow, improvvisato in un parcheggio e poi suonato assieme sul palco del Coachella dai due, ha un certo appeal drammatico, ma gli altri sono via via sempre più imbarazzanti, in parte per modestia propria, in parte forse per segnare il percorso artistico di Ally verso un pop da studio, sempre più levigato ed evanescente, che stride con la discesa di Jackson verso l’inferno dell’alcolismo e dell’autocommiserazione.
Peccato che Cooper, coinvolto nel progetto da subito, fino ad assumere un ruolo decisivo davanti e dietro la macchina da presa, non abbia avuto grandi idee, per dare senso a questo ennesimo remake di una storia, che tutti conoscono a menadito e che pure funziona alla perfezione sul piano emotivo, visti i fazzoletti e le lacrime alla fine della proiezione stampa.
Bisognava avere il coraggio di rivoltare l’archetipo completamente, invertendo i sessi ad esempio, modificando l’inesorabilità della parabola, facendo prevalere la competizione professionale sulla compassione sentimentale. Ma invece il modello rimane sempre la notissima versione di Cuckor, con i suoi eccessi melò, francamente datati ed anche un po’ triti.
Siamo ancora dalle parti del cowboy macho, bello e dannato, e della povera ragazza da salvare, che lo guarda sempre con gli occhi dolci, nonostante gli eccessi e le figuracce pubbliche.
Un anno di #metoo, di women’s empowerment e alla fine il film che trionfa, è quello che conferma in modo un po’ misogino, i ruoli di sempre.
E non è un caso che il film sia efficace proprio a livello emotivo, perchè Cooper ha spostato l’epicentro dalla doppia parabola artistica di ascesa e fallimento, alla storia d’amore distruttiva tra i due protagonisti, chiamando a raccolta tutti i clichè sentimentali, senza andare troppo per il sottile: madri assenti, padri ubriaconi e violenti, fratelli che sacrificano tutto, l’alcol in cui affondare le proprie debolezze, gelosie professionali, successo, vergogna, suicidio, persino una versione strappalacrime de La vie en rose di Edith Piaf.
Jackson Maine diventa così il vero protagonista del film: è il suo il grande ruolo tragico, con un passato interessante che riemerge lungo tutto il corso del film, benissimo interpretato da Cooper che ha proprio l’aria di chi vive fuori dal suo tempo, ma saggiamente dentro il mito dell’uomo tutto d’un pezzo.
Così però il suo personaggio, musicalmente ed umanamente sincero e appassionato sino all’autodistruzione, finisce per mangiarsi tutti gli altri e diventare il vero centro di un racconto, che invece dovrebbe far risaltare soprattutto la sua partner femminile. Troppa la distanza tra i due attori, che si rispecchia anche nei rispettivi ruoli, per non parteggiare spudoratamente per il rocker dal cuore grande e la bottiglia facile e non per la solita strillona, che picchia quattro accordi sul pianoforte e si dimena sul palco, con i capelli color pel di carota.
I caratteristi dovrebbero aiutare meglio a definire i due personaggi, ma anche in questo caso se lo straordinario Sam Elliott – nei panni del fratello manager di Jackson con baffo malinconico e sguardo liquido, che ha sacrificato la sua carriera in nome dell’amore fraterno e dell’eredità familiare – finisce per dare ancor più risonanza e spessore alla storia di Maine, al contrario si perdono per strada troppo presto quelle note a margine gustose, che avevano il compito di arricchire il ruolo di Gaga, come la compagnia di autisti all’interno della quale Ally è cresciuta o il coro di drag queen.
Quello che rimane è un melò risaputo, che non riesce a valorizzare davvero una storia ormai archetipica, ma che sembra insistentemente ricercare la commozione, con una pervicacia degna di miglior esito. La scelta di metterlo fuori concorso segnalava in modo chiaro che forse nel nostro percorso festivaliero avremo dovuto starne alla larga, ma il battage è stato sinora così travolgente che ci ha ingannato. Solo per trenta secondi tuttavia. Il tempo di assistere alle prime battute di Lady Gaga. Poi tutto è diventato più chiaro.
Agli americani è piaciuto moltissimo, d’altronde è un grande romanzo popolare, buono per ogni stagione e ancor di più in quest’era trumpiana, interpretato da una delle poche vere star, che il disastrato microcosmo musicale è riuscito a produrre nel nuovo secolo.
Il successo al box office è garantito.
Regia: |
Bradley Cooper
|
---|---|
Durata: |
135’
|
Paesi: |
Usa
|
Interpreti: |
Lady Gaga, Bradley Cooper, Andrew Dice Clay, Dave Chappelle, Sam Elliott
|