Smetto quando voglio – Ad honorem *1/2
Tutto era cominciato tre anni fa, con una banda di ‘soliti ignoti’, questa volta geniali ricercatori precari, che decidevano di dare una svolta alla loro vita, sintetizzando e vendendo una smart drug ancora non vietata dal ministero, sull’onda dell’Hisenberg di Breaking Bad e con lo spirito scanzonato dei quattro di Una notte da leoni.
L’esordio del giovane salernitano Sydney Sibilia, sostenuto da Domenico Procacci con la Fandango, da Raicinema e da Matteo Rovere, andava nella direzione di rifondare un cinema italiano di genere, popolare nel senso migliore del termine, impegnando finalmente sul grande schermo un’intera generazione di attori e caratteristi, che si erano fatti le ossa con le serie tv e con qualche commedia tradizionale.
L’esperimento era riuscito così bene, con 4 milioni d’incasso, che l’exploit si era trasformato presto in una trilogia.
Il secondo capitolo – Masterclass – ricominciava esattamente dalla fine del primo episodio, allargando il quadro, aggiungendo personaggi e ritornando su alcune scene chiave del capostipite, per inquadrarle da una prospettiva diversa.
Il film si chiudeva con la rivelazione che il vero villain della storia, lo spacciatore della molecola concorrente, SOPOX, aveva lavorato nell’ombra della banda per molto tempo, con un piano diabolico per sintetizzare e diffondere gas nervino…
Anche in questo terzo capitolo, il film ritorna sulle scene già viste nei due film precedenti, per dare un contesto nuovo ed un passato tragico all’inventore di SOPOX, svelando il piano criminale che si svolge, naturalmente all’interno dell’Università la Sapienza, dove tutto aveva avuto inizio.
E’ una sorta di ritorno a casa per Pietro Zinni e la sua banda, costretti ad evadere da Rebibbia, per sventare il piano criminale del perfido chimico Walter Mercurio.
Tuttavia questo Ad Honorem, pur appoggiandosi in tutta la parte centrale, alla messa in scena di una ‘grande fuga’ carceraria, sembra più un’appendice dei primi due episodi, che non una vera conclusione della trilogia.
La pochissime novità di sceneggiatura sono davvero troppo telefonate e il giochino dei ricercatori frustrati e vendicativi, viene utilizzato una volta di troppo. Sibilia dimentica persino il valore della coralità della banda, restando con Edoardo Leo e le sue paturnie post-adolescenziali, quasi per tutto il film e lasciando agli altri solo qualche battuta, neppure troppo gustosa.
Il film è fiacco, senza mordente, non solo prevedibilissimo nel suo buonismo di ritorno, ma piuttosto svogliato.
Forse Procacci Rovere e Sibilia avrebbero fatto meglio ad organizzare un dittico, invece di una trilogia: ne avrebbero guadagnato in compattezza narrativa e in tenuta drammatica.
Ed invece il Sibilia di Ad honorem è già maniera di sè, incapace di quella sana cattiveria e di quello spirito caustico, che hanno fatto così grande la nostra commedia.
Una delusione.