La calle de la amargura **1/2
Il messicano Arturo Ripstein festeggia quest’anno al Lido il cinquantesimo anno di attività, con il surreale e riuscito La calle de la amargura, letteralmente la via dell’amarezza.
Il film, girato in un bianco e nero molto contrastato, in una delle strade più popolari di Città del Messico, racconta un’umanità marginale, ma non rassegnata, che forse sarebbe piaciuta a Fabrizio De Andrè.
Due anziane prostitute cercano di superare l’affronto dell’età e del destino: una ha una figlia venale e egoista e un marito a cui piacciono ragazzini, l’altra vive con un’anziana che costringe a fare l’elemosina.
Quando sulla loro strada capitano due nani, famosissimi campioni di lucha libre, Akita e Morte Pequena, che sono le mascotte di due lottatori ancor più noti, Morte e AK47, un vecchio trucco del mestiere si rivolgerà drammaticamente contro di loro…
La calle de la amargura è un racconto corale, in cui ogni personaggio ha una spazio del tutto speciale che il regista sembra divertirsi molto a farci scoprire.
Le puttane tristi, i mariti fedifraghi in abiti femminili, le madri benedicenti e ubriacone e i gemelli perennemente in maschera, la pappona truce e la mendicante controvoglia: in calle de la amargura c’è posto per tutti, anche per una farmacista colpita da crisi di coscienza.
La maestria di Ripstein è quella di ricreare un microcosmo in cui l’avversità del destino è solo l’ultima delle ingiurie, ma in cui non si perde mai la leggerezza del vivere. Tragedia e farsa continuano a tendersi la mano, in un equilibrio che la prosa sudamericana del regista restituisce con la dovuta lentezza.
Difficile che lo troviate in sala dopo Venezia.