Primo film di Bong Joon Ho, prodotto con capitali americani e girato inglese, Snowpiercer si ispira in parti uguali ad una graphic novel francese ed ai grandi racconti di fantascienza distopica.
Il surriscaldamento globale rischia di mettere in crisi l’umanità. Gli scienziati mettono a punto un gas che dovrebbe riportare la temperatura terrestre sotto controllo. Provoca invece una glaciazione che estingue quasi per intero il genere umano e qualsiasi altra specie.
La neve ed il ghiaccio ricoprono ogni cosa. Il genere umano sopravvive all’interno di un treno, messo a punto dall’invisibile Wilford, signore e padrone di un microcosmo rigidamente classista, in cui la terza classe vive reclusa negli ultimi vagoni, senza acqua e senza speranza, nutrita con blocchi di gelatina proteica e sotto costante minaccia di morte da parte di una milizia incaricata di mantenere l’ordine sociale.
Sono passati diciassette anni dallo sciagurato esperimento ed il treno continua a viaggiare senza sosta.
Il treno gira su una mega rotaia, che fa il giro del mondo in un anno intero, senza mai fermarsi. I protagonisti della terza classe sono il prode Curtis, che sta progettando con il saggio Gilliam ed il giovane Edgard di risalire i vagoni e la scala sociale, capeggiando la rivolta.
Il ministro Mason, incaricata da Wilford di mantenere il giogo sui reclusi, finisce per essere catturata dai rivoltosi, che armati di buona volontà ed arguzia cominciano la loro rivoluzione, raggiungendo prima il carcere, che ha l’aspetto di un obitorio, dove liberano l’ingegnere coreano Namgoong Minsu e la figlia Yona, che li aiuteranno ad aprire le porte verso la locomotiva di testa.
I rivoltosi passano per le cucine, scoprendo la vera natura delle barrette gelatinose con cui si nutrono e quindi passando per suggestivi vagoni acquari, macellerie, sartorie, scuole elementari, bar, cabine e discoteche, battendosi con la milizia armata, che sfrutta meglio di loro la conoscenza del territorio, le gallerie e la tecnologia.
Eppure, nonostante le perdite ed i sacrifici, Curtis, assieme a Namgoong e Yona riescono a raggiungere la locomotiva dentro cui si cela il misterioso Wilford.
Ma la scoperta sarà assai deludente…
Confessiamo subito la passione per il cinema di Bong, sinora il più convincente tra i registi coreani, divisi troppo frettolosamente tra autorialità e cinema di genere.
Ciononostante Snowpiercer è il primo dei suoi film che trova una distribuzione italiana in sala: Memories of murder è incluso della nostra lista dei film da salvare dello scorso decennio ed è il parente più prossimo dell’acclamato True Detective televisivo di questi giorni, i successivi The Host e Mother erano racconti lontanissimi eppure ugualmente originali e surreali tra blockbuster d’autore, indagine psicologica e studio dei caratteri.
Ci attendevamo molto da questo nuovo film, soprattutto dopo la calda accoglienza riservatagli ai festival di Roma e Berlino nei mesi scorsi.
Il film è in realtà piuttosto deludente. Ricchissimo di invenzioni visive e trovate narrative, soffre di una sceneggiatura farraginosa, piena di buchi clamorosi, che si fa beffe di qualsiasi verosimiglianza e si chiude su un finale privo di alcun senso.
E’ vero, nella risalita dell’eroe e della coppia di coreani verso l’inaccessibile locomotiva di testa, Bong lascia spesso senza parole, per la capacità di gestione degli spazi, per le invenzioni di regia e per la meraviglia, che accompagna i protagonisti, costretti a viaggiare in condizioni disperate.
Ma perchè la terza classe non ha finestrini? O acqua? Il treno viaggia in mezzo alla neve e, come ci viene detto, l’unica cosa che produce in quantità è proprio l’acqua. Che senso ha privarne gli ultimi passeggeri? I finestrini poi non costano nulla e nell’impossibilità di uscire – pena la morte istantanea – non rappresentano neppure una minaccia alla sicurezza del treno. Eppure lo pseudo marxismo del film richiede che gli ultimi siano brutti sporchi e cattivi quanto basta, costretti in un ambiente che assomiglia più ad una miniera dell’ottocento, che ad un vagone.
Il rigido schematismo ideologico lo avvicina ad Elysium. Entrambi mi sembra usino categorie vecchie di un paio di secoli proiettandole nel futuro, per dare senso ad una battaglia più complessa, come ci accorgeremo solo alla fine, grazie al confronto tra Wilford e Curtis.
Non sembra esservi inoltre una carrozza medica, dove possano nascere i bambini che popolano il film o dove possano curarsi i degenti.
Ed ancora: da dove arrivano i quarti di bue ed i polli appena macellati, che si vedono in bella vista dopo ben diciassette anni dalla glaciazione? O il riso servito col sushi nella carrozza acquario? Sul treno ci sono anche le risaie?
Per non parlare del sarto che cuce vestiti su misura, utilizzando stoffe prese chissà dove o dell’ultimo cerino che viene usato una prima volta a metà film e ricompare poi alla fine, per accendere una miccia provvidenziale…
Il film è percorso da vuoti lancinanti.
Quando la maestra indottrinatrice ed incinta usa un kalashnikov, uccidendo metà della sua classe, per colpire i fuggitivi, o quando il responsabile della sicurezza non si fa scrupoli a sforacchiare il treno con i suoi proiettili, il film perde qualsiasi residua credibilità: siamo in un racconto fantastico, ma non si dovrebbe mai rompere il patto con lo spettatore.
In questi casi si richiama la sospensione dell’incredulità, ma non basta a coprire una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti.
E che trova il suo epilogo – qui fermatevi se non volete avere anticipazioni sulla trama – in un finale apocalittico, che comincia con la confessione dell’eroe Curtis, prosegue con un ribaltamento di prospettive indotto dai vaneggiamenti di Wilford e si conclude con l’eroe e l’ingegnere coreano che fanno deragliare il treno, uccidendo sostanzialmente tutti i sopravvissuti e vanificando qualsiasi credibile resistenza della specie.
I superstiti si ritrovano da soli, in un mondo non più incompatibile con la vita, ma ancora completamente ricoperto dai ghiacci, mentre avvistano da lontano un orso polare…
Bong vorrebbe lasciarci con una nota di speranza? Dirci che la glaciazione è terminata ed il treno non è più l’unico habitat che consente la vita? E come faranno gli eventuali superstiti a sopravvivere nel bel mezzo di un paesaggio alpino completamente desolato e inospitale?
La soluzione all’ingiustizia sociale scientificamente organizzata dal prode Wilford è un suicidio collettivo?
Dopo aver seguito Snowpiercer per oltre due ore, il doppio finale lascia davvero l’amaro in bocca e vanifica anche il buon lavoro fatto da Bong nel trasformare la prevedibilità del congegno di genere in un punto di forza, grazie ad una fotografia impeccabile ed inventiva, e ad un montaggio creativo, che alterna sapientemente stasi e frenesia.
Bong si sofferma su particolari apparentemente inessenziali, ma che sembrano piccole firme d’autore in un film senza capo nè coda, nonostante si sviluppi proprio da una coda ad un capo: ed allora ecco la scarpa sulla testa, la tortura delle braccia, la dentiera del ministro Mason (a cosa serve?), i disegni che sostituiscono la tecnologia fotografica, richiamandosi alle tavole della graphic novel. Ed ancora la serra, l’acquario e la scuola elementare… (ma le medie e le superiori?), il ponte Yekaterina su cui si festeggia il capodanno.
Chris Evans è un Curtis del tutto inadeguato ed incapace di reggere sulle proprie spalle un ruolo che avrebbe meritato un attore vero e non un una maschera da una sola espressione, come si nota nelle uniche scene di dialogo che il regista gli riserva, nel finale con Namgoong e Wilford. Anche perchè i suoi comprimari sono quasi tutti da applausi, da John Hurt vecchio e mutilato a Tilda Swinton in abiti thatcheriani e modi melliflui, dal divo coreano Song Kang Ho come sempre perfetto nell’apparente nichilismo della sua apatia, a Ed Harris, che sembra ripetere il demiurgo del Truman Show, unito alla ieraticità onnipotente del Kurtz di Brando.
Il vero villain del film è però il rumeno Vlad Ivanov, che da 4 mesi 3 settimane 2 giorni in avanti, ha continuato ad incarnare la crudeltà disumana del potere. Ma questa volta il suo personaggio è poco più che un cartoon, che la sceneggiatura fa persino risorgere nel finale, in modo del tutto pretestuoso.
Snowpiercer, rimane un film dissonante, fondamentalmente irrisolto, a cui Bong e la sceneggiatrice americana Kelly Masterson (Onora il padre e la madre) avrebbero dovuto lavorare ancora un bel po’, prima di passare alle riprese.
Ed a questo punto, la battaglia che la produzione ha condotto con il regista, per un diverso montaggio, poteva non essere del tutto fuori luogo: forse i tagli richiesti non avrebbero emendato del tutto i passaggi a vuoto della sceneggiatura, ma almeno avrebbero reso più compatto il suo viaggio.
Una mezza delusione.
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