BFI London 2013. 12 years a slave

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12 years a slave ***1/2

Dopo le polemiche sulla mancata presentazione a Venezia, siamo riusciti ad intercettare la prima europea dell’ultimo, attesissimo film del londinese Steve McQueen, 12 Years A Slave. Il pubblico e la critica della capitale britannica hanno confermato il successo ottenuto oltreoceano, prima al Telluride Film Festival e quindi a Toronto – dove il film è stato premiato con il People’s choice award, diventando uno dei titoli più papabili per l’Oscar.

12 Years A Slave è l’ultimo episodio di una trilogia dedicata, nelle parole dello stesso McQueen, all’esplorazione del concetto di libertà. Un percorso iniziato cinque anni fa con lo splendido Hunger il racconto dello sciopero della fame che portò alla morte Bobby Sands e che vinse la camera d’oro a Cannes, lanciando Michael Fassbender come star internazionale. Un cammino proseguito nel 2011 con l’altrettanto interessante ma forse più esile Shame – la storia di Brandon, yuppie fuori tempo massimo a New York che divide il suo tempo tra lavoro e dipendenza dalla pornografia, presentato a Venezia in prima mondiale e subito diventato caso mediatico per le sequenze di nudo integrale frontale maschile.

L’ultimo episodio ritorna alla storia con la S maiuscola, ma abbandona alcune costanti stilistiche e produttive dei precedenti: Michael Fassbender lascia il ruolo da protagonista, ma rientra dalla finestra con un superbo ritratto del proprietario terriero schiavista; il titolo riprende l’omonimo libro di memorie da cui è tratto; i finanziamenti arrivano dagli Stati Uniti – uno dei produttori è Brad Pitt, che si riserva un cameo nella storia.

Adattato dall’omonimo libro di memorie pubblicato nel 1853 e letto “quasi per caso” da McQueen, 12 Years A Slave racconta la storia del violinista e uomo libero Solomon Northup, rapito a Washington dietro una sedicente promessa di lavoro, deportato e costretto a lavorare come schiavo in diverse piantagioni di cotone dal 1841 fino al 1853, quando la sua famiglia a i suoi amici riuscirono a liberarlo carte legali alla mano – all’epoca, uno dei pochissimi casi di rapimento con un lieto fine. Nei panni di Solomon c’è Chiwetel Ejiofor (classe 1977), londinese di Dulwich di origini nigeriane, allievo della scuola di recitazione LAMDA con una prestigiosa carriera di teatro alle spalle – l’esordio nel cinema risale al 1997 in Amistad.

12 Years A Slave è un affresco impressionante per impatto e accuratezza: filmato nei luoghi dove originariamente sorgevano le piantagioni in una lussureggiante, pittorica palette di gialli, verdi e marroni, il film beneficia di un meticoloso lavoro di ricostruzione da parte di costumisti, production designer e del commento musicale di un maestro del calibro di Hans Zimmer. Trattandosi di un film storico e in costume, McQueen si concentra sui contenuti dell’inquadratura e diluisce i marchi stilistici, rinunciando ai piani sequenza e alle lunghe scene a camera fissa che l’hanno reso celebre.

Molti critici si sono concentrati sulla “necessità” (di produrre, e di vedere) film come 12 Years a Slave, per cancellare quasi un secolo di cinema che ci ha raccontato la schiavitù dei neri d’America a suon de La capanna dello zio Tom e Via col Vento. Questa pressione si sente e si vede tutta nel film di Steve McQueen – c’è molto da dire, la storia è complessa e nonostante la matrice autobiografica non c’è una sola fonte del racconto: le strade di Solomon s’incrociano con quelle di altri schiavi come la giovanissima Patsy (un’interpretazione ai limiti del viscerale per l’esordiente Lupita Nyong’o) e con le figure degli schiavisti (Fassbender, ma anche Benedict Cumberbatch), più o meno tormentati da sensi di colpa religiosa, quasi sempre rivoltanti.

Il risultato è eccellente, ma nel contempo si sente la mancanza dello Steve McQueen degli inizi, quando “per fare un film, bastava farlo” e non c’erano i soldi di Brad Pitt che spingevano a scritturarlo nelle vesti del canadese antischiavista, con la barba da mennonita (qualsiasi commento è superfluo…). Nonostante i limiti creativi e l’ansia da prestazione, 12 Years A Slave riesce comunque a tenere insieme i pezzi, raccontando con onestà una pagina oscura e in gran parte ancora inesplorata della storia americana e riuscendo nel contempo a dire qualcosa sul significato della perdita della libertà individuale. Ritroviamo infatti il talento del McQueen delle origini nelle scene iniziali di rapimento e tortura: una delle più potenti rappresentazioni visive del concetto di annichilimento, da cui sembra impossibile potersi riprendere – e il lieto fine del ritorno a casa di Solomon conferma quest’impressione, lasciando allo spettatore l’amaro in bocca e il difficile compito di riflettere su quanto ha appena visto. Per questo soprattutto, e non per altri motivi “necessari”, 12 Years A Slave è un grande film.

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