Cannes 2013. Senza santi in paradiso

Senza santi in paradiso – Ain’t them bodies saints **1/2

Presentato fuori concorso alla Semaine de la Critique, Ain’t them bodies saints arriva dal Sundance.

Acquistato, cosi’ come Fruitvale, da Harvey Weinstein, e’ un film di smisurate ambizioni e molti debiti.

Lowery vola alto, raccontando una crime story rurale, che potrebbe essere il seguito ideale de La rabbia giovane di Terrence Malick, ma che guarda anche alle magnifiche decostruzioni dei generi di Altman e Penn, da I compari a Gangster Story.

Siamo da qualche parte nel Texas degli anni ’60: Ruth e Bob si amano disperatamente. Lei e’ incinta. Una rapina finisce male e sono braccati dalla polizia, assieme al terzo complice, colpito a morte.

Decidono di consegnarsi, non dopo aver ferito un agente. Bob sara’ rinchiuso in carcere, ma Ruth riesce a farla franca. Passano anni e la promessa di Bob di ricongiungersi presto con la sua nuova famiglia prende forma, quando il protagonista fugge e ritorna a far visita al padre di Ruth e ad un vecchio amico che gestisce un bar in paese.

Tutti cercano di dissuaderlo: Ruth ha ormai un’altra vita.

Nel frattempo Patrick, il poliziotto ferito proprio da Ruth, si innamora di lei e si prende cura della sua bambina.

I due amanti di un tempo si scambiano lettere e promesse di fuga, ma i cacciatori di taglie sono sulle tracce di Bob.

Il film ha i ritmi lenti e lo sguardo profondo di un’antica ballata: cerca la voce interiore dei protagonisti in un continuo dialogo fuori campo. Casey Affleck, Ben Foster, Kate Mara ed il redivivo Keith Carradine donano spessore e credibilita’ ai loro personaggi, tutti sconfitti dall’impossibilita’ dei loro desideri.

Lowery decostruisce il mito dei fuorilegge in fuga e cerca di recuperare lo spirito e l’amarezza del grande cinema americano degli anni ’70, riuscendoci in buona parte. Avvolge il film in una luce calda e malinconica, che promette solo illusioni e sventure e dirige i suoi attori con consumata abilita’.

Ma quest’opera di fedele e romantica evocazione e’ solo la ricerca di uno stile o segna davvero una continuita’ ideale con la liberta’ formale ed ideologica di quel cinema?

In Altman come in Malick la scelta di cosa raccontare e di come farlo e’ sempre funzionale alla propria idea del mondo, delle relazioni sociali e sentimentali. Ma in Lowery c’e’ davvero un’urgenza narrativa che giustifichi le sue scelte autoriali?

Lo scopriremo presto. Non c’e’ dubbio che sia un talento da tenere d’occhio.

 

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