Cannes 2011 – Melancholia, Loverboy, Stopped On Track, Harakiri: Death of a Samurai, Guilty of Romance

Questa volta forse io e Mereghetti saremo d’accordo sul nuovo film di Lars Von Trier, presentato stamattina alla stampa internazionale.

MELANCHOLIA di L.Von Trier *1/2

Concorso

Come talvolta succede, un concorso di grandi nomi non e’ per forza sinonimo di qualita’, perche’ anche i maestri canonizzati sbagliano film.

Dopo il controverso, ma vitale e shockante Antichrist, Lars Von Trier ritorna a Cannes, per la decima volta, con Melancholia, un film girato in inglese, con un cast internazionale e annunciato come un’opera catastrofica sulla fine del mondo.

Nel curioso pressbook del film, che assomiglia ad una partecipazione di nozze, Von Trier pero’ sembra mettere subito le cose in chiaro e quasi chiedere scusa. Viste le immagini promozionali del film, gli sono sembrate bruttissime ed il lavoro degli ultimi due anni non all’altezza dello sforzo di tutti. La colpa e’ sua, apparentemente: ha cercato di fare un film romantico, ispirandosi a Visconti, alla classicita’ dei romanzi ottocenteschi.

Il film si apre, cosi’ come Antichrist, con una overture dal Tristano e Isotta di Wagner: in uno splendido rallenty, vicino quasi al fermo immagine, vediamo la fine di tutto. Le protagoniste in fuga, il mondo che collassa, colpito da un pianeta enorme, che finisce per travolgere la Terra.

Seguono due capitoli intitolati alle due sorelle protagoniste del film: Justine e Claire (Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg). Le due parti sono ambientate in un lussuosissimo castello con un giardino infinito con vista su un lago, di proprieta’ del ricco marito di Claire (Kiefer Sutherland).

Il primo capitolo e’ dedicato al fallimentare matrimonio di Justine, che comincia con un ritardo fenomenale, perche’ la lunghissima limousine bianca che porta gli sposi non riesce a passare nelle strette curve che portano al castello. Gli sposi arrivano a piedi e si accorgono che la festa e’ un incubo: i genitori di Justine (John Hurt e Charlotte Rampling, bravissima) neanche si parlano piu’, insultandosi pubblicamente, il datore di lavoro della sposa, che guida un’agenzia pubblicitaria, vuole che Justine scelga uno slogan per la nuova campagna, proprio quella sera e per sollecitarla, la promuove ad art director.

Intanto John e Claire, che hanno organizzato tutto, sono preoccupati dalle bizze della sposa, che sparisce per lunghi minuti e cercano di porre rimedio alle difficolta’ impreviste.

La lunga serata da incubo, che comincia con la sposa che nota una stella piu’ luminosa delle altre nel cielo azzurro della campagna che li ospita, finisce con il marito tradito la prima notte di nozze ed in fuga dal castello, mentre Justine si licenzia dall’agenzia, dopo una notte di follie insensate.

La seconda parte, dedicata a Claire, si apre con il ritorno di Justine: depressa, apatica, incapace persino di prendere un taxi o andare a cavallo.

Claire intanto e’ preoccupata perche’ quella stella lontana vista la sera del matrimonio, si e’ rivelato un pianeta, Melancholia appunto, che dovrebbe avvicinarsi alla terra nelle prossime ore. C’e’ chi parla di collisione, ma John, esperto di astronomia, dice che si tratta solo di superstizione millenaristica e non c’e’ alcun pericolo.

Le cose evidentemente andranno in modo diverso, cosi’ come l’overture aveva gia’ anticipato. Strana assonanza con il film di Malick, li’ le immagini dei pianeti erano il racconto dell’origine, qui invece si mette in scena la fine della Terra.

Vi sembra che tutto questo abbia qualche interesse? Che cosa aggiunge ai ritratti di donne di Von Trier? Che cosa ci dice sull’imminente fine del mondo? Nulla.

In Melancholia non c’e’ molto. Il talento nella messa in scena, sempre piu’ raffinata e un ritratto non banale della depressione e della mania di controllo: ma sono forse solo la conferma della misantropia feroce del regista danese, della sua abilita’ nel creare figure femminili instabili, nevrotiche e afflitte e figure maschili del tutto fallimentari e idiote.

Nulla di nuovo e due ore e 10 minuti completamente buttati. Forse ha ragione Mereghetti quando afferma che molto spesso il vuoto del suo cinema si e’ nutrito di provocazioni, di esagerazioni, di storie volutamente al limite del tollerabile, con cui manipolare lo spettatore e giocare con le sue emozioni.

Melancholia gli e’ riuscito particolarmente male. Von Trier, a quanto si dice, convive da molti anni con la depressione. Il suo cinema ne risente, ripiegandosi pericolosamente su se stesso, fino ad implodere completamente in questo ultimo dittico, che appare senza uscita. Speriamo che la solarita’ di Scorsese gli faccia bene: lavoreranno insieme ad un nuova versione di Taxi Driver, sul modello de Le cinque variazioni.

P.S. Pare che l’idea di Melancholia gli sia venuta, dopo una conversazione con Penelope Cruz, la quale voleva lavorare con lui e gli aveva suggerito di adattare Le Bonnes di Jean Genet. Rifiutatosi di lavorare ad un progetto non interamente suo, Von Trier ha scritto invece questo guazzabuglio, da cui la Cruz, intelligentemente, si e’ tirata subito fuori…

P.P.S. In conferenza stampa Von Trier farnetica di ebrei e nazismo. Il festival lo manda a casa, giustamente. Nel giorno in cui si proietta il film-non film di Jafar Panahi, imprigionato e privato di tutto, per le proprie idee, il messaggio di liberta’ del festival mal si concilia con le stupidaggini di un regista a cui forse rimane solo la provocazione: il suo cinema e’ fermo  ormai da un decennio.

LOVERBOY DI C.Mitulescu **1/2

Un certain regard

Piu’ volte a Cannes con i suoi cortometraggi, Mitulescu si era occupato negli ultimi anni di produzione. Torna ora a Un certain regard con un film discreto, che non possiede pero’ la forza tragica e metaforica dei film di Mungiu, Poromboiu e Puiu e nemmeno il loro stile minimalista, ma capace di grandi svolte narrative.

Qui il ruolo dei personaggi appare segnato sin dall’inizio.

Luca e’ un giovane spiantato che vive in una sorta di pseudo-autolavaggio: per conto di una banda, si occupa di procacciare giovani ragazze, che finiscono per innamorarsi di lui, per essere quindi avviate alla prostituzione, in Romania e quindi all’estero.

Chi osa ribellarsi finira’ sul tavolo di un obitorio.

Un poliziotto, all’inizio gli sta addosso, cerca di fargli capire che e’ solo il promo ingranaggio di un meccanismo piu’ grande.

La figlia di un pastore locale, Veli,si innamora di Luca, che questa volta sembra, almeno all’inizio, sincero e ricambia, a modo suo, i sentimenti della giovanissima amica.

Almeno sino al momento in cui, con scuse e falsi incidenti, la ragazza si offre di “fare soldi” per lui. Finira’ in uno squallido hotel di periferia e poi forse mandata lontano: Luca non ha neppure il coraggio di entrare nella sua stanza.

Il ritratto di un paese retto da una logica puramente affaristica e’ spietato: il sesso usato come merce di scambio e’ ridotto a puro istinto animalesco. L’amore non salva, rende shiavi. Il minimalismo di Mitulescu e’ efficace nella descrizione d’ambiente, ma non sempre perfettamente controllata appare la caratterizzazione dei personaggi.

Ma non bisogna andare molto lontano per scoprire logiche mercantilistiche e servili: sono le stesse del potere di casa nostra. Su cui nessuno pero’ e’ ancora riuscito a dire nulla. Forse ci sta provando Matteo Garrone.

STOPPED ON TRACK di A.Dresen ***1/2

Un certain regard

Abbiamo recuperato questo film di Andreas Dresen (Settimo cielo), in extremis, ad una proiezione del marche’.

Osannato dai critici nei giorni scorsi, racconta gli ultimi mesi di vita di Frank Lange, quarant’anni, impiegato in una ditta di spedizioni, con una moglie che guida il tram e due figli affettuosi tra infanzia e adolescenza.

Frank ha un cancro al cervello, maligno ed inoperabile. Nella prima scena un giovane dottore gli comunica la diagnosi, senza scampo. Gli rimangono pochi mesi di vita da trascorrere a casa cercando un senso alle domande: perche io? e perche’ ora?

E’ un lungo viaggio verso la morte, questo Stopped on track, onesto, rigoroso, sincero sino ad annientare il cinema ed a far vivere e morire i suoi personaggi in un quadro di realismo senza uscita.

Non ci sono i miracoli fiabeschi di Kaurismaki: il tumore uccide davvero, inesorabile, in una lunga agonia che mette alla prova i rapporti familiari e sociali.

Frank diventa irascibile, cambia personalita’, pian piano smette di camminare, perde i capelli, non si ricorda piu’ le cose. I colleghi lo vengono a trovare. Il padre, la suocera, l’amante persino, che ricorda un viaggio in Messico.

Difficile dire qualcosa su un film cosi’ radicale, cosi’ inattaccabile, cosi’ pieno di verita’. Dreisen non ci risparmia nulla, ma quello che colpisce e’ il rapporto con i familiari, che ricomincia da capo ad ogni stadio della malattia, con una continua ritrattazione del proprio status ed un continuo “riconoscimento”.

Solo chi ha provato ad assistere un fratello, una moglie, un figlio malato, puo’ comprendere quanto difficile sia continuare a non farsi risucchiare da quel grumo di dolore e di pieta’, senza uscita.

Dreisen ha lo sguardo asciutto, evita scene madri e ci restituisce un film forse insostenibile, ma, per una volta, necessario.

ICHIMEI – HARAKIRI: DEATH OF A SAMURAI di T.Miike **1/2

Concorso 

Dopo il bellissimo 13 assassins, presentato a Venezia e colpevolmente ignorato dalla giuria di Tarantino, Miike mette in scena un altro remake di un classico giapponese degli anni ’60, giocando ancora uncora una volta con i codici: quelli del cinema di genere, quelli del potere, quelli dell’originale.

Harakiri e’ un dramma quasi teatrale, lontanissimo dalla messa in scena barocca dei suoi film pop (Yattamen, Zebraman), dall’horror esibito che l’ha reso famoso (Ichi the killer) e persino dai duelli con la katana di 13 assassins.

Miike e’ un genio che ha girato 80 film in vent’anni, tra tv, sala e straight to video: ha visitato tutti i generi fuoriosamente e forse solo ora il suo cinema sembra trovare un equilibrio, nella ricerca di una classicita’, che non dimentica il suo temperamento iconoclasta e la violenza che scorre, sottotraccia, anche in un film asciutto come questo Harakiri.

Qui e’ il kammerspiel a prevalere: siamo nel Giappone del XVII secolo, quando il protagonista Hanshiro si reca alla Casa di Li, per chiedere al rappresentante del Signore feudale, Kageyu, di poter commettere un suicidio rituale, quest’ultimo gli ricorda la gravita’ del suo proposito e che la casa non tollera richieste finte, volte solo a strappare qualche denaro al signore.

E gli racconta la storia di un altro samurai, il giovane Motome, che tre mesi prima si e’ presentato con la stessa richiesta.

Temendo che fosse un bluff per estorcere denaro, i luogotenenti di Kageyu vogliono dare un esempio a tutti gli altri, accettando la richiesta del giovane Motome e costringendolo ad un dolorosissimo seppuku con una spada di bambu. Lo strazio e’ infinito e Motome tradisce il suo proposito: non voleva veramente uccidersi, ma chiedere al Signore una piccola somma per la moglie ed il figlio malati.

Kageyu e i suoi luogotenenti sono inflessibili: Motome muore dopo atroci sofferenze.

Hanshiro pero’ la storia la conosce alla perfezione, perche’ e’ il padre putativo di Motome.

Non solo, ma la moglie di Motome, Miho, e’ la figlia di Hanshiro.

Con un lungo flashback che dura oltre un’ora, il film si sofferma a raccontare la storia di Motome, un samurai in tempo di pace, costretto alla poverta’ ed alla miseria. Quando il piccolo figlio e la moglie si ammalano ed il dottore pretende dei soldi in anticipo per venire a guarirli, l’unica sua speranza e’ quella di richiedere un finto suicidio alla Casa di Li, sperando nel rifiuto del Signore e nella concesisoen di una piccola somma, sufficiente a salvare la sua famiglia.

Miike avrebeb dovuto ridurre il suo dramma familiare di almeno una mezz’ora, perche’ la parte centrale e quella finale appaiono decisamente troppo lunghe. Nel film si attende l’esito della richiesta di Hanshiro per un tempo infinito, riempito da un melo’ piuttosto scontato.

Miike usa in 3D in modo originale, non per dare profondita’ di campo, ma per creare uno schermo, un velo alla sua storia, con i personaggi sempre in secondo piano.

Il suo racconto ci parla ancora una volta di come la tradizione e il codice d’onore dei samurai, rischino di diventare un vuoto involucro dientro cui nascondere ogni nefandezza e ogni crudelta’. Nel Giappone del 1600 come in quello moderno, non c’e’ piu’ spazio per la pieta’, travolta da un rispetto formale per codici che non tengono piu’ conto dell’uomo.

E’ una rivincita sulla ragion di stato, purtroppo in un film che e’ troppo immobile per poter davvero appassionare.

Koji Yakusho (Kageyu), e’ sempre straordinario, anche in una parte cosi’ piccola.

KOI NO ZUMI – GUILTY OF ROMANCE di Sion Sono *

La Quinzaine des Realisateurs

Dopo il giappone feudale di Miike, corriamo alla Quinzaine, per scoprire quello che molti ritengono il nuovo fenomeno del cinema nipponico: Sion Sono.

Al suo attivo gia’ una quindicina di film, l’ultimo Cold Fish era stato presentato a Venezia 2010.

Guilty of Romance e’ il racconto di come una donna, moglie fedele e annoiata di uno scrittore famoso, divenga per noia e voglia d’avventura un’attrice porno e poi una prostituta di strada, finendo coinvolta in un omicidio odioso, scoprendo il tradimento del marito e la doppia vita di una professoressa universitaria, ossessionata dal Castello di Kafka.

In un delirio lungo oltre due ore e mezza, che prosegue interminabile anche per tutti i titoli di coda e oltre, Guilty of Romance non sfigurerebbe nella fimografia di Tinto Brass, tra amplessi isterici, sceneggiatura ridicola e attrici imbarazzanti, peraltro presenti in sala.

Una stronzata colossale, che la Quinzaine ospita fuori concorso, la cui morale e’ che le donne, in fondo, sono tutte puttane del piu’ infimo livello (!!!???).

Spenderci altre parole sarebbe inutile. L’oblio l’accompagni.

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