Il diario di Cannes 2010 – 4

Paolo Mereghetti si lamenta, sul Corriere di oggi, della scarsa qualità dei film in concorso, dopo avere sostanzialmente stroncato i nuovi Kitano e Inarritu.

Presto vi riferiremo le nostre impressioni, ma certamente l’edizione 2010 non è certo in grado di competere con quella dell’anno scorso, nella quale brillava più di un film destinato a durare.

Già sulla carta, la Croisette apariva un po’ sottotono: la realtà sta confermando le prime impressioni.

E neppure le sezioni collaterali, nonostante qualche isolato exploit, sembrano essere immuni da una mediocrità diffusa…

Film di martedì 18 maggio:

I wish I knew di Jia Zhang-Ke – Un certain regard ***

Fortunatamente la mattina ci offre un pronto riscatto, con l’ultimo documentario di Jia Zhang-Ke su Shanghai: attraverso una lunga serie di interviste, si racconta la storia della città, da Chang Kai Shek ai lavori per l’Expo, inaugurato pochi giorni fa.

Sono spesso i figli ed i nipoti a raccontare gli uomini che hanno attraversato la vita della città: imprenditori, operai, cantanti, uomini del partito.

C’è anche il cinema naturalmente: quello di Wong Kar Wai, quello di Hou Hsiao Hsien, quello della fine degli anni ’40. E quello di Michelangelo Antonioni, nella sua trasferta cinese del 1972, per un documentario prima voluto e poi osteggiato dalle autorità.

Ed è in questi momenti che il film si accende improvvisamente e brilla di una luce misteriosa, così come avviene anche nelle riprese della città in trasformazione: immagini filmate venti anni fa, si sovrappongono a quelle odierne, in una vertigine imprevista.

Come sempre lo sguardo di Jia Zhang-Ke è uno sguardo morale. Nei volti delle persone, nelle skyline, nei campi lunghi dei suoi piani sequenza c’è una capacità straordinaria di raccontare, con un’economia di mezzi ammirevole e con una stupefacente abilità di fare cinema, anche solo con un volto e una città.

The Myth of American Sleepover di David Robert Mitchell – La semaine de la critique **

Il programma del festival si diverte a proporre contrasti e contrapposizioni e così, dopo gli adolescenti tutto sesso di Araki ecco quelli sentimentali di Mitchell, che a stento si baciano, in quel rito di passaggio delle feste di fine estate, prima di riprendere o cominciare il college.

Ci sono i ragazzi infatuati della bionda incrociata al supermercato, quelli innamorai del bagnino, quelli incapaci di crescere e quelli che tramano tradimenti e piccole vendette.

Purtroppo il film di Mitchell, un po’ anacronisticamente girato in pellicola, sembra uscito male dai primi anni ’90 e manca di una delle qualità essenziali di ogni buon racconto americano: il ritmo.

Il cast di giovani attori conferma che in ogni americano c’è un potenziale talento drammatico, ma certo questo film non lancerà la carriera di nessuno di loro.

Rimandato a settembre…

Outrage di Takeshi Kitano – In concorso *

Recensire l’ultimo film di Kitano è impresa davvero ardua: per chi ha amato la solitudine dei suoi criminali, il loro severo codice d’onore ed il senso di lealtà tutta maschile dei suoi personaggi, riconoscersi in questo ultimo film è impossibile.

Le avvisaglie della crisi erano cominciate dieci anni fa, con il manierista Zatoichi, summa e sberleffo al tempo stesso di un regista che forse aveva già terminato le cose da dire.

La triade di film autoriflessivi che erano seguiti, visti a Venezia e mai distribuiti in sala, avevano evidenziato un’impasse creativa clamorosa.

Il ritorno al milieu della yakuza, che aveva fatto grande il cinema di Kitano, è terribilmente infelice.

Otomo, un capozona di secondo livello finisce in mezzo alla faida tra due famiglie rivali e viene usato, come una pedina sacrificabile dal suo boss.

Il film è tutto qui e procede con una continua carneficina, senza scopo e senza senso, nella quale l’ironia e lo stile di una volta sono merce assai rara, mentre prevale una violenza pornografica e brutale, che disturba e atterrisce, che vorrebbe essere paradossale e riesce solo a sembrare inutile.

Siamo lontani dalle iperboli di Tarantino: si usano trapani dentistici da far impallidire “Il maratoneta”, taglierini per mozzare dita che non si rompono e funi legate a spartitraffico, per decapitare i nemici.

Il questo campionario horror del tutto gratuito, che costringe più volte a girare lo sguardo, non si comprende dove sia finito Melville, nume tutelare di Kitano e guida ispiratrice di un cinema che almeno una volta poteva dirsi morale.

Oggi quello che resta, per dirla con Shakespeare, è solo una maschera che si agita, raccontando una storia che non significa nulla.

Piccola postilla… Il film si apre con il logo della Warner Bros: Cagney e Bogart si staranno rivoltando nella tomba…

Un homme qui crie di Mahamat-Saleh Haroun – In concorso **1/2

Daratt, premiato a Venezia nel 2006, segnalava al mondo questo regista capace di imporsi in un paese dove l’unica sala cinematografica della capitale era nel centro culturale francese.

Il Chad è da sempre piegato dalla guerra civile ed in questo contesto di guerra strisciante, Haroun racconta la storia di Adam e Abdel, padre e figlio, impiegati nella piscina di un albergo per turisti.

Adam, che tutti chiamano Champion, perchè è stato un vero campione di nuoto, è maestro di nuoto e bagnino: la piscina è tutta la sua vita. Abdel, suo figlio, lavora con lui.

Ma l’insicurezza della guerra costringe i proprietari a sfoltire il personale. Ne faranno le spese il cuoco David e lo stesso Adam, costretto a riciclarsi come guardia al cancello: sarà Abdel infatti il nuovo maestro di nuoto.

Il rapporto tra padre e figlio sembra interrompersi bruscamente e neppure la madre riesce a sottrarre i due da un significativo silenzio.

Adam sembra accettare di malavoglia il cambiamento sino a quando un emissario locale del governo lo pone di fronte ad una scelta ineludibile: finanziare la milizia o donare alla causa Abdel, facendolo arruolare a forza.

Champion farà la scelta sbagliata e sarà l’inizio della fine.

Un homme qui crie, in un concorso sinora modesto, spicca per forza narrativa e si impone inevitabilmente all’attenzione della giuria.

Haroun gira con stile semplice ed efficace e usa lo schermo panoramico per immergere i suoi personaggi negli spazi della città. Dirige i suoi attori senza inutili sentimentalismi e li conduce sino ad un finale perfetto, che riconsegna all’acqua di un fiume il senso di colpa, per una tragedia familiare, che solo nell’acqua può trovare un’impossibile redenzione.

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