Cannes 2023. Les Filles D’Olfa – Four Daughters

Les Filles D’Olfa – Four Daughters *

Per la prima volta in concorso con il suo quinto lungometraggio, la regista tunisina Kaouther Ben Hania decide di raccontare la storia di Olfa Hamrouni e delle sue quattro figlie, continuando a mostrare i limiti tra cinema di finzione e documentario e forzando una messa in scena spesso disturbante e controversa.

Così come avvenuto con The Man Who Sold His Skin, che le è valso una candidatura all’Oscar e il premio Orizzonti a Venezia, e prim’ancora con l’esodio Le Challat de Tunis, un falso documentario satirico sulla condizione femminile nel suo Paese e con La bella e le bestie, ispirato ad una violenza realmente accaduta e raccontata dalla protagonista Meriem Ben Mohamed in un libro di memorie, anche Les Filles D’Olfa nasce dalla cronaca.

Nel 2016 le due figlie maggiori di Olfa, le adolescenti Rahma e Ghofrane, scompaiono in clandestinità una dopo l’altra, dopo essersi radicalizzate e raggiungono le milizie Daesh in Libia.

La stampa locale e internazionale si interessa della storia, così come la Ben Hania, che comincia a girare un documentario sulla donna e sulle due figlie più piccole, Eya e Tayssir. Solo che quello che ottiene non la soddisfa. La parte interessante della loro storia è accaduta nel passato e risiede nei ricordi, non nel presente.

Così lascia da parte quella storia per molti anni fino a quando rivedendo il girato durante la pandemia non si accorge che il modo giusto per raccontare quella storia è un altro, poco ortodosso, decisamente non tradizionale.

Traendo forse ispirazione dal lavoro di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn e degli autori anonimi indonesiani di The Act of Killing e The Look of Silence, coinvolge Olfa e le due figlie più piccole nella preparazione delle riprese di un film che non si farà mai, con un’attrice che presterà il suo volto alla madre nelle scene più complicate emotivamente e altre due professioniste nel ruolo delle figlie radicalizzate Rahma e Ghofrane e un unico attore ad interpretare tutti i ruoli maschili.

Ben Hania riprende così le sedute di trucco, le prove di alcune scene, asseconda il flusso dei ricordi di Olfa e delle ragazze, ricostruisce la loro storia sin dall’inizio, dal matrimonio con un uomo debole, alla nascita della ragazze nel 1998, 199, 2003 e 2005, all’incontro con un poco di buono in fuga dalla polizia politica, di cui Olfa si innamora e che ospita a lungo, senza accorgersi delle droghe e degli abusi a cui aveva sottoposto le ragazze.

Il film lascia interdetti a lungo, perchè sembra sfruttare la storia di Rahma e Ghofrane, di cui solo alla fine scoprire il destino, coinvolgendo madre e sorelle in un tour de force che lascia scosso persino uno degli attori.

Azzerando ogni distanza di sicurezza, trasformando vittime e testimoni in attori, eliminando ogni filtro narrativo e ogni interrogativo morale, Ben Hania cerca di mettere in piedi un lavoro di una certa originalità e presa emotiva, tuttavia i dubbi sulla legittimità di un’operazione di questo tipo rimangono intatti, così come quelli relativi alla sciatteria e all’approssimazione paratelevisiva di come è stato realizzato.

E’ tutta psicologia del dolore quella che vediamo sullo schermo, oppure questo è davvero l’unico modo per raccontare questa storia? Le lacrime che scorrono copiose sui volti di Olfa e delle figlie sono reali e fin dove è giusto spingersi in nome della necessità narrativa?

Quella foto finale che riprende le due prigioniere Rahma e Ghofrane in niqab, con la figlia di sei anni di una delle due, costretta a vivere in carcere tutta la sua esistenza, era davvero opportuna? Quel primo piano del volto della bambina lo riteniamo ragionevole o è una forma disgustosa di sfruttamento di un’innocente inconsapevole, per sollecitare nel pubblico una risposta emotiva?

Sono tante domande, forse troppe per un solo film. Magari ne basta una sola: è giusto interrogarsi sulla moralità dello sguardo di Ben Hania?

Noi una risposta ce l’abbiamo, è chiarissima e se ci leggete la conoscete già.

Tuttavia quello che conta è che questa invasione privata nella vita di Olfa, Eya e Tayssir non ci avvicina di un passo nel comprendere come Rahma e Ghofrane siano passate dall’anticonformismo ribelle, la musica goth e le maglie con scritte blasfeme all’islamismo radicale. Il film non ci fa fare un passo in nessuna direzione. Si limita a mostrare il dolore delle protagoniste, il loro senso di colpa, mettendo in scena i loro ricordi e l’impossibilità di comprendere.

Il gioco non vale la candela.

Manipolatorio e pornografico.

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