Cannes 2023. Killers of the Flower Moon

Killers of the Flower Moon ***1/2

Tratto da Gli assassini della terra rossa di David Grann, scritto da Scorsese con Eric Roth, Killers of the Flower Moon è un altro lungo viaggio nella storia criminale americana, gemello per molti versi di The Irishman, per il tono crepuscolare, i tempi dilatati, l’amarezza di fondo e la disillusione di chi è stato testimone di un tempo perduto e corrotto.

Se attraverso il killer Frank Sheeran lo sguardo si posava su trent’anni di potere mafioso e criminale, sulle sue connessioni con la politica, l’economia e il sindacato, questa volta il protagonista è Ernest Burkhart, il nipote del potente proprietario terriero William Hale, che tutti chiamano il Re di Osage County. Anche lui è un reduce, che torna a casa dopo aver combattuto nelle trincee della Grande Guerra.

Siamo in territorio indiano e la scoperta del petrolio ha stravolto le abitudini rurali di quel territorio, fino a farlo diventare il più ricco di tutti gli Stati Uniti. I treni riversano in città avventurieri e criminali, che Hale governa con una determinazione feroce, occultata da un temperamento bonario e da modi melliflui.

Temuto e rispettato dai locali come dai nativi, Hale in realtà mira a mantenere il suo potere con ogni mezzo.

Quando il nipote Ernest sposa l’indiana Mollie, assegnataria assieme alle sorelle di uno dei giacimenti più importanti della zona, decide di fare in modo che quella ricchezza resti in famiglia.

Mollie è malata di diabete, le sorelle invece vengono uccise una dopo l’altra, mentre gli investigatori privati assunti dalla tribù spariscono nel nulla.

Avvelenata a poco a poco dal marito, ma determinata a fare chiarezza, Mollie prende il treno e si reca a Washington dal Presidente Coolidge, che invia ad Osage alcuni uomini del nascente Bureau of Investigation, guidati dal ranger Tom White.

Il castello di menzogne e omicidi è destinato a crollare miseramente.

Aperto e chiuso dalle cerimonie dei nativi americani, immerso in una cultura apparentemente distante da quella newyorkese di Scorsese, in realtà Killers of the Flower Moon è un altro racconto antropologico di raffinatissima intelligenza. E ancora una volta, sembra dirci il regista, è il milieu criminale a raccontare l’America meglio di qualsiasi rievocazione storica. Un po’ come accaduto in passato con il Bronx degli anni ’40 di Toro Scatenato o la Brooklyn di Quei bravi ragazzi, con i Five Points del XIX secolo di Gangs of New York, la Las Vegas degli anni ’70 di Casinò.

William Hale, l’anima nera di questa storia, è un uomo che ha l’aria di un gentleman bonario, nei suoi completi eleganti su cui non si è mai posata una macchia di sangue. Ma che invece non si fa scrupoli nell’ordinare omicidi e vendette cercando di mantenere il suo potere d’influenza e il suo ruolo nella comunità. De Niro gli dona tutta la sua ambiguità, le sue rughe d’espressione, il temperamento calmo capace di esplodere in ogni momento. Il suo personaggio sfrutta cinicamente la morale del denaro, l’unica conosciuta da chi ha fatto una fortuna senza nessuna fatica.

Di fronte a lui il nipote Ernest si fa ogni volta sempre più piccolo: è difficile empatizzare con un uomo che sembra subire le volontà altrui senza mai opporre resistenza, un debole che diventa strumento spesso inconsapevole, un pavido che si fa strumento della storia, per amore della sua famiglia e della moglie, che pure contribuisce ad avvelenare. La scelta di Leonardo DiCaprio, pur imbruttito dal trucco, sembra controintuitiva, eppure più volte nei suoi film scorsesiani si è trovato ad interpretare personaggi tormentati, perduti, incapaci di fare la scelta giusta.

Bravissima invece Lily Gladstone, che interpreta con seraficità stoica la moglie Mollie: anche se la malattia segna il suo destino, cerca fino all’ultimo di credere all’uomo che ha sposato.

Nonostante il cast allinei molti altri nomi importanti, Killers of the Flower Moon è la storia di William Hale, di Ernest e di Mollie. Tre personaggi, così come in Toro Scatenato e Casinò, L’età dell’innocenza e Gangs of New York, Re per una notte e Il colore dei soldi. 

Anche l’entrata in scena del Bureau e di Jesse Plemons nel ruolo di Tom White, quasi a due terzi dei 206 minuti del film, non sposta la prospettiva.

Il film tuttavia ci mette molto, forse troppo a trovare la sua vera dimensione e a mostrare fino in fondo la natura predatoria dei suoi personaggi: non è nè un western, nè un gangster movie, sfrutta tempi fluviali e uno stile iperclassico, fatti di continui campi e controcampi. Nella prima parte, se non ci fosse la serenità placida di Lily Gladstone, capace di attrarre sguardo e attenzione su di sè ogni volta che compare in scena, il film si direbbe spesso privo di mordente e urgenza narrativa, come disperso in rivoli inessenziali e dominato da una calma solo apparente.

La colonna sonora di Robbie Robertson si riempie di blues delle origini, con un tema che ricorre ipnoticamente per tutto il film, un po’ come accadeva già in The Irishman, ma senza quelle accelerazioni improvvise, quelle sintesi che sono sempre stati la firma, imitatissima, di Scorsese.

La fotografia del messicano Rodrigo Prieto cerca di restituire la temperatura di quegli anni, anche attraverso l’uso di immagini di repertorio in b/n e altre ricreate appositamente. Il montaggio di Thelma Schoonmaker, una volta ipercinetico e elettrizzante, negli ultimi lavori si è fatto decisamente più compassato, quasi assecondando la lentezza nervosa e ossessiva delle musiche scelte. Preziosissimo il lavoro sulle scenografie e le location di Jack Fisk, che fin dal sodalizio con Malick, ha saputo cogliere le sfumature e il paesaggio dell’America rurale come nessuno.

La Apple che l’ha prodotto con Paramount lo lancerà nelle sale ad ottobre. La durata estenuante non lo aiuterà, così come la difficoltà ad entrare in sintonia con il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio. Tuttavia l’alternativa dello streaming sembra ancor più penalizzante, per un film di queste dimensioni e di questo scopo.

Per Scorsese si tratta così, come per The Irishman, di un altro requiem solenne e oscuro, un’altra testimonianza del peccato originale di un Paese che, fin dalle origini, si è costruito sulla sopraffazione e la violenza.

Killers of the Flower Moon è, come il precedente, un grande film sul Potere, il suo esercizio brutale, la sua brama che corrompe e corrode ogni cosa e che alla fine si trasforma in materia per narratori come lui, come mostra il sensazionale show radiofonico del finale, che salda magnificamente la lezione del Ford di Liberty Valace e quella del Welles delle origini.

Anche questa volta non c’è riscatto possibile, nè perdono. Solo racconto, leggenda, mito.

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